MESSINA. Non si placa la bufera sull’ordinanza “coprifuoco” per regolamentare la movida cittadina. Dopo la riunione di ieri fra amministrazione e associazioni di categoria (che sancirà vari cambiamenti) e il recente intervento dei comitati del centro storico, con la richiesta di misure ancor più draconiane, a intervenire è adesso la “Rete 34+”, che in una nota si scaglia contro i provvedimenti del Comune, la “militarizzazione” della notte e la strana correlazione fra alcol e misure anti Covid.

Di seguito il contributo:

«La Rete 34+, come associazione informale che raccoglie cittadini dediti all’analisi delle politiche urbane, critica aspramente le misure “anti-movida” individuate dall’Amministrazione comunale, anche alla luce delle modifiche che saranno effettuate. Queste misure, infatti, utilizzano strumentalmente la crisi sanitaria come pretesto per imporre irragionevoli (ed illegittime) limitazioni non solo alla libera iniziativa privata ma anche e soprattutto alla libera fruizione dello spazio pubblico da parte della collettività.

Piuttosto, ci sembra che le “ragioni” sottostanti all’adozione del contestato provvedimento celino un’incapacità politica ed amministrativa di gestire sia l’attuale fase emergenziale che quella ordinaria: non sfugge ai più, infatti, che già esistono specifiche regole nazionali per il distanziamento sociale. E anche che la regolamentazione degli orari e delle attività notturne è già disciplinata dalla legge e dai regolamenti locali, che, con i dovuti pesi e contrappesi, tutelano la libertà di movimento, la quiete pubblica e la libera attività imprenditoriale.

Peraltro, tale straordinario provvedimento scarica sul cittadino e sulle sue libertà il peso dell’incapacità amministrativa di fornire un servizio adeguato di sicurezza e pulizia urbana. La natura del servizio pubblico non consiste nel limitare le libertà adeguandole alle incapacità del sistema politico, ma nel servire la cittadinanza, rispondendo ai bisogni di quest’ultima e ai suoi modi d’impiego della città. Sono insomma i servizi che devono adeguarsi ai bisogni dei cittadini e non i cittadini e gli imprenditori a doversi piegare all’incapacità di chi li fornisce e amministra.

È evidente, poi, che non vi è alcuna relazione tra consumo di alcol e propagazione del virus. Il rapporto, infatti, è pari a quella che vi è tra consumo di gelato, oppure granita e brioche, e propagazione della malattia. Se il problema, quindi, sono gli assembramenti, questi vanno evitati attraverso i controlli delle autorità e non attraverso misure che puniscono l’impresa e la libertà degli individui.

L’adozione del provvedimento emergenziale si pone quindi in un quadro che con l’emergenza – in senso lato, compreso dunque il pretesto del disagio giovanile – non ha nulla a che fare, e che quindi determina evidenti squilibri a danno di determinate categorie. Risultano così fortemente penalizzati tanto gli imprenditori della notte (una delle poche categorie economiche rimaste nel quadro di una progressiva trasformazione che ha deliberatamente sostituito l’economia di produzione con i servizi) quanto quei cittadini che vogliono “vivere” la città, sempre nel pieno rispetto di quelle regole generali già esistenti.

Da un punto di vista storico, sociologico e criminologico, lo strumento adottato non ha neanche una sua intrinseca utilità rispetto al fine latente che intende perseguire: è noto infatti che la repressione favorisce la nascita di pratiche, modalità di consumo e comportamenti sotterranei, che potranno pure far diminuire la vita presente nelle strade o in determinate zone della città, ma in concreto non fanno altro che trasferirla in altre zone, vanificando, quindi, tutti i propositi di sicurezza sanitaria sottesi al provvedimento restrittivo.

Un capitolo a parte è la militarizzazione della notte, con presidi permanenti di polizia e posti di blocco. Lascia perplessi la legittimità sociale di cui godono queste misure simboliche, generalmente associate alla sicurezza anziché al sospetto. Quel sospetto strutturale che trasforma ogni onesto cittadino in un potenziale criminale, deviante e infrangitore delle norme. A fronte, peraltro, di risultati spesso modesti, che incastrano poche decine di contravventori rispetto alle centinaia di persone e autovetture fermate.

L’ordinanza emergenziale, inoltre, è l’ulteriore manifestazione di una “ipertrofia normativa”. Una patologia che non riguarda solo lo Stato, ma anche l’attuale amministrazione comunale che, ormai da mesi, opera fuori dalle proprie competenze e in un quadro che scompone il lavoro, introducendo distinzioni relative a ciascuna fase del servizio (l’asporto, la mescita al bancone, il servizio ai tavoli etc.), con effetti pressoché nulli sul piano della salute pubblica e massimi su quelli della sostenibilità del lavoro.

Se le autorità credono così di realizzare misure “moderne”, in linea con quanto accade nel resto del Paese e del mondo, sappiano che stanno semplicemente lavorando per mortificare un insieme di diritti elementari dello stato liberale, arrecando peraltro danni significativi all’economia cronicamente depressa della nostra città, con l’aggravante, in quanto autorità, di stare velatamente deresponsabilizzando sé stesse per i propri fallimenti e le proprie incapacità.

Sarebbe bene che imprenditori e cittadini realizzassero che questo modello di città e cittadinanza “ordinata” e “sicura” pone problemi serissimi dal punto di vista democratico ed economico. E, conseguentemente, farebbero bene a richiedere che il dibattito pubblico si ponesse su piani ben più alti e sostanziali che il semplice allargamento della finestra oraria entro cui vendere le bevande o aggiustamenti simili.

Ciò che è in gioco, infatti, è la possibilità di fare impresa e di dirsi liberi abitanti di uno spazio urbano».

 

 

 

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