MESSINA. È nato tutto con quella foto, scattata da chissà chi con un tempismo eccezionale, e diventata virale in un attimo, che ritraeva due monaci buddhisti, in tonica amaranto d’ordinanza, immortalati a Villa Luce, all’inizio della litoranea, sotto un emblematico cartello: “Paradiso”.

Per due giorni, Messina ha osservato con curiosità mista ad interesse (e l’immancabile battuta greve dei vari Mimmo e Stellario dei quali in città c’è abbondanza) quelle macchie di colore e capelli rasati, arrivati da tutta la Sicilia e la Calabria, ma anche da molto più lontano per assistere alle lezioni del Dalai Lama. 

Al teatro Vittorio Emanuele, provenienti dai centri Buddhisti di Messina e Reggio, di adepti vestiti in tonaca ce n’erano una cinquantina, alcuni dei quali arrivati al seguito di Tenzin Gyatso: come un monaco novantunenne, considerato un illuminato, davanti alla saggezza del quale persino il Dalai Lama stesso si inchina. Un’occasione, per la città, di aprirsi al mondo, scrollandosi di dosso quella patina di provincialità che troppo spesso non solo subisce, ma coltiva essendone quasi fiera.

 

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