Il filosofo tedesco

Seduto al tavolino di un bar dell’antica e sontuosa via dei Monasteri, il filosofo tedesco immerge con lentezza il tuppo della brioscia all’interno della granita. Un gesto attento, ponderato, per dosare la giusta quantità di panna che si impregna fra i suoi baffi folti e prominenti da tricheco, molto in voga fra gli intellettuali dell’età vittoriana. È una calda e sonnolente giornata di aprile e le strade del centro storico e del porto brulicano di vita. All’orizzonte, al di là della grande Palazzata ricostruita dopo il devastante terremoto del 1783, si intravede uno scorcio sfocato della Calabria: appena una sottile striscia di verde che sembra ondeggiare sulla superficie increspata del mare.

L’uomo, 38 anni, lo sguardo austero, il carattere mite – così discordante dal fervore delle sue parole -, è giunto in riva allo Stretto ormai da qualche settimana, dopo un soggiorno di sei mesi sulla riviera ligure. Non è stato uno sbarco facile, il suo: arrivato a Messina su un veliero salpato da Genova, unico passeggero oltre all’equipaggio, è stato talmente scombussolato dal viaggio da dover essere accompagnato in albergo su una barella. I giorni successivi sono stati invece belli e intensi, soprattutto grazie all’ospitalità e alla gentilezza dei messinesi, che lo viziano e lo corrompono “nel più amabile dei modi”. Il problema, tuttavia, è il vento. Quel perfido e ossessivo scirocco che continuerà a tormentarlo e a fiaccargli lo spirito fino al giorno della sua partenza, molto prima di quanto avesse prospettato, distraendolo dai suoi mille pensieri. In quella calda mattina di aprile per fortuna lo scirocco è clemente, e l’uomo con i baffoni già pregusta un’altra lunga e rilassante passeggiata sulla litoranea nord, in quel tratto di mondo “alla fine del mondo” che doveva apparirgli così diverso dalla sua lontana Sassonia.

Ancora seduto al tavolino del bar, con il bicchiere della granita ormai vuoto, il filosofo probabilmente non sa che da qualche parte del centro storico, a passeggio con la moglie e la figlia, c’è un altro intellettuale tedesco in vacanza a Messina, un musicista arrivato in treno da Acireale la sera del 10 aprile, dopo un soggiorno di circa quattro mesi a Palermo. A differenza del primo, ospite in un albergo nei pressi di piazza Duomo, l’artista alloggia in una camera dell’Hotel Vittoria, sulla lunga ed elegante via Garibaldi. Da qui, nei suoi tre giorni di permanenza in riva allo Stretto, si recherà a visitare la Cattedrale, mentre la moglie Cosima e i figli ne approfitteranno per ammirare lo splendido polittico di Antonello da Messina, all’epoca esposto nella chiesa di San Gregorio, a monte dell’attuale via XXIV Maggio.

I due turisti in realtà si conoscono da tempo, e a lungo hanno condiviso la stessa visione del mondo e dell’arte. Poi hanno litigato, per motivi controversi, e non si parlano da anni. Si chiamano Friedrich Nietzsche e Richard Wagner: due fra i più grandi geni di ogni tempo, a spasso per Messina, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, in una calda giornata di aprile del 1882.

Al netto di ricostruzioni fantasiose (no, non sappiamo se Nietzsche abbia gustato o meno una granita, ma ci piace immaginarlo),  la permanenza del filosofo a Messina è sempre stata avvolta da un’aura di mistero (“Nessun altro periodo della sua vita ci ha provocato tanto imbarazzo”, scrive il suo biografo Joachim Koelher). Quel che si sa è che l’autore di “Umano troppo Umano” soggiornò in città dal 31 marzo al 20 aprile del 1882. Alla città dedicherà anche la sua unica opera poetica, gli “Idilli di Messina”, ricca di riferimenti al mare e agli uccelli marini.

 

 

 

Il baleniere

Per anni ha solcato gli oceani più profondi e tumultuosi, a caccia di balene e misteri fra gli abissi dell’Atlantico… per poi sentirsi male nel breve tragitto tra Messina e Reggio.

Un piccolo paradosso che ha come protagonista Hermann Melville, il padre di “Moby Dick”, che nel 1857 trascorse tre notti in città nel corso di un viaggio in solitaria fra l’Europa e la Terrasanta. Lo scrittore sbarca a Messina la mattina del 13 febbraio, accolto all’alba dalle coste della Calabria e della Sicilia, “alte, frastagliate e pittoriche”, con le cime più alte tinteggiate di bianco, in una giornata di pioggia che picchietta sulle acque dello Stretto, “simile a una laguna”. Melville alloggia in un hotel del centro, probabilmente il Trinacria, e trascorre la notte del suo arrivo al caffè dell’Opera. Il giorno successivo si reca a fare una gita sui colli, a dorso d’asino. La vista da lassù è mozzafiato, fra i forti che dominano l’abitato e “i torrenti che vengono giù dai monti attraverso la città”. La sera di San Valentino si reca al teatro Sant’Elisabetta, l’attuale Vittorio Emanuele, per assistere al “Macbeth”. E a dirigere l’orchestra, secondo alcune fonti, pare vi fosse Giuseppe Verdi in persona.

È tuttavia la domenica il giorno più entusiasmante, con le strade del centro stracolme di gente in maschera per via del Carnevale. Il baleniere si avventura nella mondanità cittadina, percorrendo per sette o otto miglia “i lunghi sobborghi che costeggiano il mare”, fino alle 10 di sera. «Bella giornata. Mi ha dato un godimento considerevole (…). Le strade, di sera, sono animatissime». Poi, l’indomani, il rientro, scombussolato dai capricci di Scilla e Cariddi: «Ho preso un passaggio in cabina di seconda e alla fine m’è toccato pentirmene amaramente», appunterà sul suo diario di viaggio.

 

 

Messina, la nobile

«L’indomani ci svegliammo con il sorgere del giorno: i primi raggi del sole ci mostrarono la regina dello Stretto, la seconda capitale della Sicilia: Messina, la Nobile. La sua posizione meravigliosa, le sue sette porte, le sue cinque piazze, le sue sei fontane, i suoi ventotto palazzi, le sue quattro biblioteche, i suoi due teatri, il suo porto e il suo commercio che forniscono un impulso e movimento a una popolazione composta di settantamila anime, la rendono, malgrado la peste del 1742 e il terribile terremoto del 1783, una delle più fiorenti e graziose cittadine del mondo». Una vera e propria dichiarazione d’amore che porta la firma di Alexandre Dumas, autore del “Conte di Montecristo”, giunto a Messina il 12 maggio del 1835 a bordo di una speronara.

Ad ammaliare il grande romanziere è innanzitutto l’affaccio a mare, “che s’incurva come una falce fin nel mezzo dello stretto”, così diverso rispetto all’attuale waterfront, sottratto alla cittadinanza ormai da decenni: «Non esiste a Messina né parco né villa comunale, di modo che tutti, quando scende la sera, si recano verso il lungomare della Palazzata, più volgarmente chiamato la Marina, per respirarvi l’aria di mare. Il porto – scrive nei suoi diari – è dunque il luogo di ritrovo di tutta l’aristocrazia messinese, che vi passeggia a cavallo o in carrozza, da una porta all’altra, cioè su una lunghezza di un quarto di lega».

Numerosi i luoghi e gli aneddoti descritti da Dumas nel suo breve soggiorno in Sicilia, dalla caccia al pescespada alla cerimonia di San Nicola nel villaggio di Pace (superato il quale la città gli appare “in tutta la sua regalità maestosa”), dalla scoperta dei fichi d’India alla ricostruzione post terremoto del 1783, con le case della riviera incomplete e innalzate  su due soli piani fuori terra.

Bellissima, in particolare. è la descrizione della pesca con le lampare, con le acque dello Stretto illuminate “a giorno” dalle luci delle barche: «Dalle coste della Sicilia a quelle calabre, il mare è letteralmente ricoperto di fuochi fatui, che visti dall’alto delle montagne che bordano entrambe le rive, devono formare le evoluzioni più bizzarre e i disegni più fantastici che sia possibile immaginare».

Curiosamente, proprio come accadrà a Nietzsche, anche il padre dei tre moschettieri resta turbato dallo scirocco, un “vento terribile” a causa del quale un medico si rifiuta persino di curare un paziente, in un’atmosfera surreale: «Messina aveva l’aria di una città morta, nessun abitante circolava per le strade, nessuna testa si affacciava alla finestra».

 

Prima del disastro

Quarant’anni di cambiamenti e progresso, con il centro storico che si amplia e si ammoderna, a partire dai mezzi di trasporto e dal collegamento fra le due sponde dello Stretto. A raccontare l’evoluzione della città, a cavallo fra l’Unità d’Italia e il  nuovo secolo, è Edmondo De Amicis, che soggiorna a Messina in due momenti diversi, prima nel 1865 e poi a novembre del 1906: quasi mezzo secolo di storia, durante il quale la città  muta radicalmente aspetto.  «Ricordo bene le grida di meraviglia con cui le contadine messinesi, dai colli circostanti alla città, salutavano le prime macchine a vapore messe in esperimento sulla linea, lungo la riva del mare. Ora, venendo dal continente, si attraversa lo stretto senza discendere dai vagoni ferroviari, che sono trasportati da una riva all’altra sopra un piroscafo», annota sul suo taccuino lo scrittore ligure-piemontese, che si sofferma soprattutto sul nuovo volto del centro urbano.

«Messina – scrive – s’è innalzata su per i graziosi colli conici che le sorgono da tergo, ed ha allungato le sue grandi ali bianche lungo il mare fino a perdita d’occhi. La mia antica piazza d’armi è scomparsa sotto un nuovo quartiere elegante e ridente; le antiche vie che già erano ariose e linde, si sono arricchite di botteghe splendide; le piazze si son ornate di palme; la luce elettrica brilla da ogni parte; i tramway percorrono l’interno della città e si spingono fuori fino al Faro, distante dal centro parecchie miglia». Non manca, anche in questo caso, un riferimento alla “movida” sulla cortina del porto: «Il movimento della popolazione, specialmente sulla grande strada della Marina, su cui si stende una lunga schiera di grandiosi edifizii uniformi, è pari – in apparenza – a quello delle più popolose e floride città marittime del continente».

L’autore di “Cuore” accosta più volte Messina alla bellezza femminile, colpito dal contrasto “fra l’azzurro vivo del mare e il vivo verde della lussureggiante vegetazione che copre l’anfiteatro dei suoi colli e dei suoi monti”. E se la città gli appare luminosa e profumata “di rose e di aranci”, a restare impresso nella sua mente è anche il carattere dei suoi abitanti, così come “il numero notevole di biondi che vi si riscontra”: «Nei messinesi l’indole isolana appare in certo modo ammorbidita e levigata; l’animo loro si apre più facilmente con gli stranieri, le loro maniere sono più cerimoniosamente cortesi, il loro stesso dialetto è più largamente mescolato di vocaboli e di forme importate e meno sicilianamente accentuato che il dialetto delle altre popolazioni dell’Isola».

Prezioso testimone di un passaggio importante nella storia di Messina, De Amicis non potrà tuttavia raccontarne lo stravolgimento più grande. Morirà infatti due anni dopo il suo secondo viaggio in Sicilia, a marzo del 1908: appena qualche mese prima del terremoto che cambierà per sempre il volto della città.

 

Il primo sisma

Johann Wolfgang Goethe arriva a Messina la sera del 10 maggio 1787, nel corso di un tour nel Bel Paese (e in Sicilia) che farà da da “apripista” a generazioni di viaggiatori alla riscoperta delle radici leggendarie e mitiche della cultura europea. Giunto di sera dopo essere partito in dorso a un cavallo da Taormina, non riesce nemmeno a trovare un albergo aperto e deve accontentarsi della locanda del cavallaro, nel centro storico di una città che è ancora uno spettrale cumulo di macerie a causa del terremoto del 1783. «Dopo l’immane catastrofe che colpiva Messina e uccideva dodicimila abitanti – scrive il poeta e drammaturgo, definito “l’ultimo uomo universale” – non era rimasto un tetto per trentamila superstiti; la maggior parte delle case era crollata; quelle che erano rimaste in piedi non offrivano, per le mura tutte lesionate, alcun rifugio sicuro; si pensò allora a costruire in fretta e in furia a nord della città, in una estesa pianura, una città di baracche […] In tali condizioni si vive a Messina già da tre anni».

E che dire della magnificenza decaduta della Marina che nei secoli precedenti aveva sedotto artisti e scrittori? «Nulla di più tetro che lo spettacolo della cosiddetta Palazzata, una serie di grandi palazzi a falce di luna, che incorniciano la spiaggia per il tratto di un quarto d’ora. Erano tutti edifici a quattro piani e costruiti in pietra; di questi, alcune facciate sono rimaste ancora in piedi fino al sommo della cornice, altre son crollate fino al terzo piano, al secondo, al primo; in modo che tutta questa schiera di palazzi, un tempo così superbi, adesso si presenza allo sguardo orribilmente frastagliata e bucherellata, poiché l’azzurro del cielo si vede attraverso quasi tutte le finestre».

Accompagnato dal governatore della città, con cui fa una brutta gaffe, presentandosi in ritardo a un pranzo, Goethe visita in quei giorni anche uno degli edifici più prestigiosi dell’epoca, la chiesa di San Nicolò dei Gentiluomini, annessa al Collegio dei Gesuiti, sede dell’Università messinese, che sorgeva nei pressi del Palazzo della Provincia Regionale, sul corso Cavour. Quasi perfettamente sopravvissuto al sisma del 1783, fortemente danneggiato dal terremoto del 1908 e ricostruito in stile arabo-normanno presso Piazza Cairoli, l’edificio sarà poi demolito nel 1975, per far posto alla Standa. Quel che ne resta, al giorno d’oggi, è solo il portale originale, osservabile nel cortile esterno del Museo regionale.

Lo scrittore riparte da Messina il 14 maggio, a bordo di una corvetta napoletana dalla quale annota le sue ultime impressioni, fra i tumulti delle acque: «L’occhio poté correre liberamente lungo lo Stretto, a nord e sud, per l’ampia striscia di mare fiancheggiata da rive stupende. Dopo aver pagato il nostro tributo d’ammirazione a tutte queste bellezze, ci si fece notare a sinistra, un po’ lontano, un certo subbuglio nell’acqua, e a destra, un po’ più vicino, uno scoglio che spiccava netto sulla spiaggia: quello era Cariddi, questo Scilla. […] Immaginazione e realtà stanno tra loro come la poesia e la prosa. […] Per rovesciare i templi di Girgenti non sono bastati due millenni; sono bastate poche ore, per non dire pochi istanti, per distruggere Catania e Messina. Tali le riflessioni, veramente afflitte dal mal di mare, d’un pover’uomo sballottato tra i flutti della vita; alle quali però non ho lasciato prendere il sopravvento».

 

Il secondo cataclisma

«Io a Messina ci ho passato i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie della mia vita. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia». Sono trascorsi ormai un paio d’anni dal terremoto del 1908, ma Giovanni Pascoli ancora non si dà pace. Quello del poeta è un dolore autentico, viscerale, in cui traspare tutto l’amore per la città che lo ha ospitato per circa 5 anni, nelle vesti di professore ordinario di letteratura latina all’Università degli studi.

Pascoli arriva a Messina a gennaio del 1898, in compagnia del cane Gulì e della sorella Mariù, con la quale condivide un appartamento al secondo piano di via Legnano. Le prime impressioni della città sono positive, grazie soprattutto al fascino dello Stretto, all’aria buona (“sebbene molto scirocchevole”) e alla bella falce adunca, “che taglia nell’azzurro il più bel porto del mondo”.

Tutto cambia nel giro di qualche mese, a marzo… quando lo scrittore e la sorella contraggono il tifo a causa di una abbuffata di cozze a Ganzirri. «Io odio Messina e il suo bel cielo, sempre nuvolo…», scrive Mariù in una lettera, per poi cambiare nuovamente idea dopo la guarigione del poeta, nel mese di giugno. Lasciata la casa di via Legnano, Pascoli si trasferisce in piazza “Don Fano”, in un appartamento “…moderno, abbastanza vasto”, che il poeta intende trasformare nel “più bell’alloggio di tutta Messina”. Da appassionato di fotografia (e da ornitologo), appoggiando la Kodak alla ringhiera e con un uccellino in mano, si immortala in una foto al balcone,  da cui si gode una bellissima vista sul mare e su forte Gonzaga. Spostandosi dal suo studio di Palazzo Sturiale, Pascoli ama passeggiare per la città, ammaliato dai suoi monumenti e dal suo splendido mare, che “se ci tuffi una mano, gocciola azzurro”.

Sono anni felici quelli vissuti in riva allo Stretto dallo scrittore romagnolo, che si affeziona in particolar modo al portiere dell’edificio, Giovanni Sgroi, al quale invierà dopo il sisma una grossa somma di denaro e una lettera, con l’auspicio che “la nostra Messina risorga più bella di prima”. Nei suoi ricordi anche una bambina vestita di stracci e con la faccia smunta, che un giorno, incrociandolo per strada, chiede al poeta di donarle un fiore. “Vossia mi dugna un ciuri?”.

Pascoli lascia per sempre la Sicilia a giugno del 1902, per trasferirsi prima a Pisa e poi a Bologna, dove insegna letteratura italiana, succedendo a Carducci. Ed è lì, all’ombra delle Due Torri, che il poeta apprende la ferale notizia.

 

Il paziente spagnolo

Sdraiato su un lettino dell’Ospedale civico di Messina, a causa di alcune ferite gravi rimediate in battaglia, c’è un ragazzo spagnolo di 24 anni, ricoverato in riva allo Stretto il 31 ottobre del 1571. A preoccupare i medici della struttura, che all’epoca sorgeva nell’area dell’attuale Palazzo di Giustizia, è soprattutto la condizione del braccio sinistro, “involto di panni sanguinosi”, che lo lascerà per sempre storpio. Sono le conseguenze della recente battaglia navale di Lepanto, combattuta il 7 ottobre tra le flotte musulmane dell’Impero ottomano, guidate da Müezzinzade Alì Pascià, che morì nello scontro, e quelle cristiane della Lega Santa.

Il primo approccio fra il giovane e Messina era avvenuto ad agosto, giusto qualche giorno prima l’arrivo di Don Giovanni d’Austria: a bordo della ‘Marquesa’, dove si era imbarcato da volontario, il ragazzo impiegava il suo tempo dedito alla lettura, indifferente agli schiamazzi dei membri della ciurma, più interessati all’alcool e alle zuffe. E sempre all’insegna dei libri, grazie ai testi di Plutarco e Tucidide che gli aveva dato in prestito il cappellano, erano stati i giorni successivi alla battaglia, trascorsi fra il suo letto di degenza e i giardini dietro all’ospedale.

Oggi è il 23 di aprile del 1572 e dal giorno del suo ricovero sono passati ben sei mesi: l’inverno intero e uno scorcio di primavera. Un lungo periodo di isolamento dal mondo che terminerà l’indomani, quando potrà finalmente lasciare la sua stanza. Con la testa appoggiata sul cuscino, il giovane guarda per l’ultima volta la città al di là dei vetri e come sempre la sua mente si perde in mille pensieri e visioni, fra rocambolesche avventure di cavalieri erranti e il ricordo della lontana campagna andalusa, con i suoi mulini a vento.

Il nome del ragazzo è Miguel de Cervantes Saavedra e negli anni successivi al ricovero in Sicilia consegnerà all’umanità il suo capolavoro letterario più grande, “Don Chisciotte della Mancia”, la cui idea primigenia – secondo molti storici – fu concepita proprio a Messina, in quei lunghi mesi di solitudine e silenzio trascorsi a osservare lo Stretto.

 

(Illustrazioni di Aristide Ciervo. Dal numero 4 di LetteraEmme Magazine. Grazie a Giampiero Neri e Filippo Cucinotta e alla rubrica “Via da Messina”)

 

NEI PROSSIMI GIORNI “Messina in versi”, i “ritratti” di tre scrittrici messinesi vissute in tempi diversi, ma accomunate dallo stesso amore viscerale per le parole e dalle difficoltà dettate dalle consuetudini sociali dell’epoca, sullo sfondo di una città che cambia.

 

 

 

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Alessandro Orlando
Alessandro Orlando
3 Giugno 2025 8:52

Grazie