Oggi si celebra la giornata delle vittime innocenti di Mafia. In tute le piazze (restrizioni permettendo) si ricorderanno i nomi delle migliaia di vittime sparse per l’Italia: storie di uomini comuni che hanno lasciato un vuoto immenso nelle vite dei propri familiari.
La domanda che si rinnova è: Messina è mafiosa? Messina ha storie da raccontare? Qui è mai successo qualcosa?
La Mafia Messinese ha caratteristiche e peculiarità proprie, che la differenziano dai territori circostanti, è ed è sempre stata emancipata ed autonoma dalle altre realtà criminali. Fa sorridere l’appellativo di provincia “babba” e soprattutto la volontà giornalistica di imporre questa narrativa distorta, secondo cui Messina era territorio inconsistente per importanza criminale e di conseguenza territorio di conquista da parte di altre mafie.
In realtà le famiglie criminali Messinesi si distinguono da quelle circostanti di Cosa Nostra e della Calabria, e la differenza storica tra le due realtà regionali si concretizza sul diverso modulo familiare-organizzativo: quella siciliana si può definire complessa, alla base ci sono le famiglie, la parentela ha un ruolo primario ma l’affiliazione va oltre il quadro parentale, l’organizzazione si può definire piramidale-composta, basata sul continuo arruolamento di nuovi adepti. La ‘Ndrangheta, invece, ha un organico numericamente ridotto rispetto a Cosa Nostra e si basa sulla struttura familiare vera e propria, il cosiddetto concetto del capo bastone.
La ‘ndrina a base familiare è il segreto del successo della ‘ndrangheta sul piano criminale e della sua forza attuale rispetto a tutte le altre formazioni mafiose, e questo spiega perché ci sono pochissimi collaboratori di giustizia e poche informazioni sui clan calabresi, dal momento che è intrinseco in questo ragionamento il concetto di gerarchia in senso paterno-patriarcale, e c’è una continuità tra la famiglia naturale e la famiglia mafiosa.
La mafia messinese non è altro che un restyling del modello calabro, da cui importa lo stile, la struttura e da cui eredita perfino i riti e le qualifiche.
Purtroppo c’è una tendenza diffusa a sminuire la realtà peloritana che per certi aspetti è più complessa e difficile da decriptare, a causa, soprattutto, della rete di potere paramassonico con cui si intreccia. Sono, infatti, tanti i casi storici dove protagonisti del mondo del notabilato cittadino e quelli della criminalità stringono accordi e si scambiano favori a vicenda.
Diversi collaboratori hanno raccontato che avevano rapporti con giudici e politici, hanno fornito un quadro inquietante, con storie “verosimili” di raccolta voti per politici nazionali, e corresponsione di stupefacenti e prostitute a importanti magistrati giudicanti, in favore di aggiustamenti di sentenze.
A seguito di queste dichiarazioni furono diversi i magistrati indagati e arrestati, con un valzer tra dichiarazioni giudicate attendibili, altre non accettate, per tornare nuovamente attendibili, per essere in seguito ancora screditati e non considerati a secondo il soggetto fisico contro cui si deponeva.
I primi maxiprocessi messinesi per mafia si ebbero negli anni 80, ricordando che il reato di associazione mafiosa fu istituito nel 1982 a seguito di omicidi eclatanti. Si iniziò con il primo processo dei “69” del 1984 e il secondo processo dei “290” del 1987, e con queste sentenze furono decretati i primi reati associativi nel nostro territorio, ma incredibilmente si escluse la matrice mafiosa: nel secondo processo per esser precisi fu riconosciuta l’associazione mafiosa in primo grado ma cadde in appello.
Nella città di Messina dopo una prima esperienza organizzativa monofamiliare di cui Gaetano Costa, detto facci i sola, era leader indiscusso, ad inizio anni 80 con la scissione del Clan Costa, in città emergono e si impongono 5 clan mafiosi che si dividono tutto il territorio messinese. La presenza criminale si avverte in modo esponenziale nelle realtà periferiche.
La geografia criminale cittadina varia di anno in anno a secondo dell’evoluzione omicidiaria. Verso la fine deli anni ‘80 al rione Cep domina il clan Ferrara, al vill. Aldisio Leo, a giostra Pimpo-Galli, a Camaro Ventura, Mancuso a Gravitelli, altri spazi, e non secondari, si ritagliavano ancora le note famiglie Cavò Sparacio, e Marchese-Cambria.
A tal proposito è interessante la teoria del noto criminologo Edwin Sutherland, che spiega il perché di questa radicalizzazione nelle periferie cittadine. Egli sostiene che l’idea criminosa viene appresa per trasmissione culturale, preferibilmente da una subcultura criminale. Secondo lui per questo motivo, interessati direttamente al fenomeno sono in modo particolare i quartieri periferici, dove si palesa in maniera più plateale la cultura dell’esibizione della forza e vi è una sorta di alfabetizzazione al crimine che punta sul carisma dei capi. Tali capi nei quartieri sono riferimenti, indiscussi, per tutti.
Il periodo delle elezioni è il momento in cui i due mondi, quello della criminalità e quello delle istituzioni, per certi aspetti diversi e distanti, si uniscono e si combinano fino a compromettersi irrimediabilmente. Da un lato ci sono i clan la cui prerogativa principale è il controllo del territorio, mantenere “l’ordine” nelle piazze, sulle strade, una missiva dimostrativa che rappresenta insieme forza e predominio, ma che allo stesso tempo trasmette fiducia e sicurezza ai concittadini, rappresentando, anche, il punto di riferimento nel momento del bisogno, l’Antistato che si sostituisce allo Stato. Lo storico Eric Hobsbawm racconta che: «ai deboli –contadini e muratori- la mafia offriva quantomeno qualche garanzia», cioè, in altre parole offriva la presenza e la percezione di avere il controllo del quartiere. Cosa che non riusciva a fare lo Stato.
Nel quindicennio in cui si sono susseguite le guerre di mafia sull’asfalto sono state rinvenute circa 200 vittime, storie che ho trattato con rispetto, perché dietro ogni nome c’è carne e sangue, c’è una famiglia che piange un proprio caro e l’argomento è veramente tanto delicato.
Oltre ai caduti diciamo “per servizio” cioè gli appartenenti alle diverse fazioni che si scontravano per ragioni di predominio criminale, a Messina sono diverse le persone colpite accidentalmente, tutte persone comuni, che le indagini hanno dichiarato essere innocenti ed estranee a qualsiasi rapporto con la criminalità, persone che semplicemente si trovavano nel posto sbagliato nel momento sbagliato, chi per strada, chi dal gommista, chi sul proprio balcone di casa. Eventi tragici che hanno segnato famiglie e generazioni.
Nel giorno della memoria delle vittime di Mafia, si ricordano, giustamente, gli eroi, i nostri simboli, chi rappresenta lo Stato, chi per lavoro, in un certo modo, rappresenta l’argine a questo fenomeno, chi è emblema ed esempio per tutta la società civile, però, è sconcertante osservare che i media e la classe politica abbiano dimenticato queste vittime, le vittime comuni.
Almeno davanti alla morte, credo, che non ci debbano essere Vittime di serie A e Vittime di serie Z, per tutti ci vuole dignità e rispetto, dignità per la memoria di chi ci ha lasciato e rispetto per il dolore che i familiari si portano dentro. Il dramma che ha colpito queste famiglie Messinesi, aggiungo per puro caso, poteva essere il dramma di ognuno di noi.
La cosa assurda che oltre al dolore del lutto, invece di ricevere la solidarietà pubblica, i familiari sono stati segnati dal pregiudizio e dal sospetto, dalla indegna logica del sospetto. Molti oltre a portare la croce della sofferenza hanno dovuto aspettare decenni per avere giustizia e ricominciare a camminare a testa alta.
Oggi i tempi sono maturi affinché venga riconosciuto il giusto tributo dalle istituzioni e dalla società civile, che fino ad ora, sono spesso state sorde davanti al grido di dolore delle famiglie colpite. Tocca alla politica onorare la memoria di queste nostre vittime, di questi nostri concittadini, con un riconoscimento pubblico, con l’intitolazione di nuove strade e piazze. In memoria e ricordo di Campagna, Manca, Alibrandi, Falcone, Fenghi, Bonasera e tutte le altre persone che hanno perso la vita senza un motivo.
Affinché nessuno dimentichi.
Per approfondire: