La cattiva sorte di un territorio, quando c’è, si vede da come gli elementi infieriscono su di esso. Messina è uno di quei posti sfortunati. In cui terra, acqua e fuoco, alternativamente o in maniera combinata, hanno sempre fatto danni. Grossi, pesanti, a volte esigenti in termini di tributo in vite umane. Altre volte causando solo disagi, ma di quelli belli grossi. Di quelli che segnano una comunità per anni e fanno aumentare esponenzialmente la diffidenza nei confronti delle classi dirigenti, quelle che dovrebbero prendere decisioni e risolvere problemi. E non lo fanno.

La crisi idrica di novembre del 2015 è stato uno di quei momenti. Venti giorni senz’acqua a causa di una frana (il fuoco, sempre negli stessi luoghi, si è rifatto l’anno successivo): una situazione surreale che diventa quasi parossistica se si pensa che solo adesso, a quasi due anni di distanza da quei fatti, si sta intervenendo in maniera definitiva. Con conseguente “mini” crisi idrica, dovuta ai lavori, che non può che riportare alla mente quei giorni assurdi. Giorni in cui una frana staccatasi dalla montagna che sovrasta Calatabiano tranciò in due la condotta dell’acquedotto Fiumefreddo che pompa nei serbatoi messinesi novecento litri d’acqua al secondo. E che scomparve dai rubinetti per venti giorni.

All’epoca fu coniato persino un hashtag che finì in testa alla timeline di Twitter: #messinasenzacqua. Uno slogan social subito ripreso dall’opinione pubblica italiana, che però, dopo due o tre giorni d’incredulità, sulla faccenda iniziò a ridere forte. Come è possibile che per una frana una città rimanga senz’acqua per quindici, venti giorni?

È possibile sì. Perché da quella fine di ottobre del 2015, dal primo momento in cui l’acqua ha smesso di scendere dai rubinetti, è iniziata un incredibile serie di sottovalutazioni del problema, confusione nelle priorità, interventi sbagliati e rimpalli di responsabilità, con frettolose dichiarazioni di problemi risolti che invece risolti non lo erano affatto, ritardi negli interventi, interventi confusionari, prefettura contro Comune, Messina contro Calatabiano, presidenza della Regione contro nemici immaginari che ordivano chissà quale complotto, protezione civile regionale contro protezione civile nazionale, messinesi rassegnati e resto degli italiani sbalorditi.

Cosa resta di quei giorni? La mancanza di chiarezza sull’entità del danno, con la frana caduta tra il 23 ed il 24 ottobre, una notte tra venerdi e sabato, un intervento inutile effettuato il lunedi successivo e l’ammissione, solo mercoledì, che sarebbero serviti ancora molti gioni prima che la situazione fosse recuperata. Quanto tempo? Braccia allargate, è stata la risposta.

Di quei giorni rimangono le surreali dichiarazioni dell’allora direttore generale dell’Amam, Luigi La Rosa, che di fronte ad una città inferocita e gente che si sciroppava due ore di fila alle autobotti, ha avuto l’ardire di affermare che “solo la Nasa avrebbe potuto fare meglio”, non considerando il fatto che la Nasa manda gente sulla luna e la fa tornare indietro sana e salva, e che a Messina una montagna che frana lascia una città a secco per venti giorni.
Di quei giorni rimangono l’arrivo della nave cisterna al molo Marconi, al porto, dopo una settimana, con il conduttore televisivo Zoro di “Gazebo” ad immortalare una scena da film: la pioggia, i marinai che armeggiano intorno alle bocchette, i due formati (quello del porto e quello della cisterna) non compatibili, l’acqua che subito dopo essere stata pompata dalla nave nelle condotte ha iniziato a zampillare dal metallo fradicio dei rubinetti delle bocchette, in una semioscurità in cui spiccava solo un’auto della protezione civile comunale come presenza istituzionale.

Restano, di quei giorni, le riunioni esecutive convocate dalla prefettura una settimana dopo l’accaduto, mentre la situazione era già abbondantemente precipitata, restano deliranti conferenze stampa al Comune in cui si vedeva a occhio nudo che non si sapeva che pesci pigliare, che risposte dare, a quale santo rivolgersi.

Resta infine l’unico sprazzo di professionalità e operatività, per attendere il quale è stato necessario che arrivasse da Reggio Emilia Arnold Cekodhima, un ingegnere della ditta Benassi, quella che ha fornito i tre tubi flessibili da posare per sostituire la condotta tranciata (e che sono ancora lì, in procinto di essere sostituiti dalle 12 di oggi).  Un ingegnere che, come se fosse la cosa più naturale del mondo (e lo è, solo non a Messina), ha raccontato la strategia utilizzata per risolvere la crisi: “Ci siamo chiusi dentro una stanza e non ne siamo usciti fuori fin quando non abbiamo trovato una soluzione”.

Ricordi un po’ annacquati (ma è solo un caso) che da domani, giorno in cui la città dovrà affrontare nuovamente le conseguenze di quei giorni, si faranno d’improvviso più vividi. Nella speranza che il fuoco, dopo un’estate d’inferno, sia clemente come allora.

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Giovanni
Giovanni
6 Settembre 2017 9:31

Per amore di cronaca ed un minimo di patriottismo, andrebbe detto che il progetto del By-Pass è anche frutto del lavoro di un “idraulico” di Raccuja e dei suoi colleghi ingegneri di Palermo e del prof. Aronica dell’Università di Messina, come dovrebbe sapere la sua collega giornalista Modica che fece un articolo in merito.
Cordialità