MESSINA. La statuetta di Colapesce, per anni nella stanza del sindaco di Messina (e adesso alla Gamm), ha una storia triste alle spalle. Una storia riassunta da una lettera…

«Illustre direttore, la prego di voler rendere pubblica la notizia che il sottoscritto, in qualità di cittadino e scultore messinese, si permette di offrire gratuitamente alla sua città il grande modello della statua del “Colapesce” sviluppato a grandezza di esecuzione per la fontana di piazza Stazione, di cui il bozzetto è stato esposto alla XVII Biennale di Venezia». È il 1976, quando lo scultore Antonio Bonfiglio (1895-1995), stanco e scoraggiato, scrive a un giornale di Messina per aver ascolto dal sindaco. Il Maestro lavora a Roma e ha già ottanta anni. Parallelamente, Messina ha iniziato un declino ancora occultato dalle vacche grasse dei contributi statali e dei sottogoverni. A “regnare” è Pino Merlino, il Teatro Vittorio Emanuele è stato buttato giù e sta per iniziare la stagione delle case in cooperativa e delle sopraelevazioni. Insomma, la città è l’antitesi di quella “felice” a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Bonfiglio sente la sua età, però la voglia di scolpire è la stessa: «Detto bozzetto, pubblicato in diverse riviste straniere è stato nel 1946 acquistato dal Comune di Messina con l’impegno di essere realizzato appena possibile. Con ciò lo scultore intende semplicemente lasciare alla città natale una sua opera che da anni aspira a realizzare in bronzo. Roma, 16 aprile 1976». Il Colapesce che propone Bonfiglio è rappresentato secondo un suo tipico principio di sintesi: scomparse le colonne tipiche dell’iconografia, il giovane Cola regge un peso che non c’è, assorto dal suo compito e pieno del suo destino. Il contesto in cui il maestro inserisce la statua, invece, è figlio dei tempi in cui la concepisce, ovvero pienamente radicata nel verbo razionalista del Ventennio, con un sistema di vasche e un’esedra alle spalle della statua.

CHI ERA BONFIGLIO. Figlio conteso tra due città (quella preterremoto e l’altra, rinata dalle macerie), Antonio Bonfiglio nasce a Messina nel 1895 e apprende i primi rudimenti di scultura dall’intagliatore Saccà. Perduto il padre a causa del sisma, si trasferisce a Catania dove continua a imparare presso la scuola di Arti e Mestieri, iniziando contemporaneamente gli studi musicali. A diciassette anni Bonfiglio si trasferisce a Roma, dove frequenta la scuola serale del Museo artistico industriale e le scuole libere del nudo. Per guadagnarsi da vivere fa l’intagliatore del legno. Roma gli serve non solo per apprendere la tecnica, ma anche per indagare sui maestri del passato. Dal 1916 al 1918 partecipa al primo conflitto mondiale, poi, per qualche anno, resta a Messina. Nel 1922, però, è di nuovo a Roma, dove si diploma come professore di Disegno architettonico all’istituto di Belle arti. Nel 1924 torna definitivamente in città. La sua prima apparizione pubblica coincide con il concorso per la realizzazione del Monumento ai Caduti della città: arriva terzo. A 33 anni, la svolta: la sua richiesta di partecipare alla Biennale d’Arte di Venezia viene accolta. Vi andrà altre dieci volte, ma da invitato dall’organizzazione. Da quel momento, dal 1928, è un susseguirsi di esposizioni su esposizioni: “Quadriennale d’arte di Roma”, mostre sindacali e interregionali, internazionali di Barcellona di Spagna (1930), di Atene, di Tunisi (1936), di Budapest, Universale di Parigi (1937). Le sue opere cominciano a girare in tutto il mondo, da New York a Philadelfia, da Parigi a Londra. In Italia, la “Bambina dormiente”, esposta in Quadriennale, viene acquistata dalla Galleria nazionale di Arte moderna. Lo stesso accade a Palermo. In altre città, Catania e Reggio ad esempio, piovono le commissioni pubbliche. Il nocciolo della produzione di Bonfiglio, però, si trova a Messina. E il fatto di aver lavorato durante il fascismo costa all’artista una sorta di ostracismo strisciante, che si consumerà con l’oblio definitivo. In città il maestro lascia tantissime opere, tra le quali il San Pietro al Duomo, il “Fante morto” di Cristo Re, i “Puttini danzanti” all’Ospedale Piemonte, l’Antonello del Municipio, il San Francesco all’Immacolata, la Fontana Arena (a Milazzo, il Monumento a Luigi Rizzo). L’altra sua produzione riguarda i decori dei palazzi: da quello di Giustizia al Municipio, dalle Poste agli isolati della città ricostruita, fino alla Camera di Commercio e alla Galleria Vittorio Emanuele, edifici, questi ultimi, grazie ai quali Bonfiglio stabilisce un proficuo sodalizio con l’architetto Camillo Puglisi Allegra. Sodalizio che si ritrova anche nelle testine femminili in ghisa del cosiddetto Palazzo di Marmo, in via Cavour, che a entrambi si può ascrivere.

IL VALORE ARTISTICO. Bonfiglio fa parte di quella schiera di artisti, tra i quali Schmiedt, D’Anna e Romano, che non mancavano mai alle sindacali d’arte e alle competizioni ed esposizioni più importanti. Proprio in linea con quella che fu l’idea base delle sindacali si dimostrarono aggiornati sulle principali tendenze imperanti durante il Ventennio: dal Futurismo, al Novecento, al Realismo magico, al Monumentalismo sironiano e così via. Durante la carriera, Bonfiglio mostra due volti: uno si esprime nel rigore della scultura su commissione, e guarda con attenzione il luogo dove l’opera finirà, sapendo ben distinguere dall’elemento seriale (vedi i “pisci buddaci” di Palazzo Zanca); l’altro, invece, ha presente che il lavoro dovrà vivere di vita propria. A questo Bonfiglio appartengono le opere che vanno ai concorsi e alle esposizioni. A dimostrarlo, le due Biennale d’Arte di Venezia (la prima è quella del 1928), nelle quali lo scultore abbandona la descrittività per darsi alla sintesi, alla rigidità della pietra e del marmo che si da forma, come nel caso del “Cieco”, presentato proprio al suo esordio in Laguna.

L’OBLIO. Quella di Bonfiglio, e non solo per il Colapesce, è una storia che si ripete nel non fatto o nel dimenticato. Come nel caso del monumento a Umberto I, fino al dopoguerra nella marina di Reggio Calabria e poi scomparso tutto d’un colpo, per poi essere ritrovato, privo del piedistallo e dell’inquadramento architettonico, all’interno di un lido (è stato ricomposto in coincidenza con il restauro del lungomare). Una storia che si ripete, appunto, anche nella scultura in gesso realizzata per l’ingresso della Fiera campionaria di Messina e rimossa (per poi scomparire) a causa di una delle tante ristrutturazioni. A dedicare la vita allo scultore Bonfiglio e al giusto tributo che meriterebbe (almeno una mostra antologica) è stato il professor Renato Fasanella Masci, che ha certosinamente raccolto materiali e testimonianze.

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Sergio Sergi
Sergio Sergi
2 Luglio 2017 17:14

Come messinese espatriato, ora abito in Sabina a pochi kilometri da Roma, mi è molto piaciuto incontrare Antonio Bonfiglio che io conoscevo poco, nel bell’articolo di De Joannon. Spero che altri messinesi si facciano vivi.