MESSINA. Una giornata, quella di ieri, indubbiamente caratterizzata da una notizia locale su scala mondiale: la cattura del boss mafioso di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, latitante da trent’anni e dall’estate del 1993 ricercato ovunque da Polizia e Carabinieri, fino a ieri mattina, quando i militari del Ros e la procura di Palermo hanno individuato il suo covo (a Campobello di Mazara, nel trapanese, paese del favoreggiatore Giovanni Luppino, finito in manette insieme al capomafia) per poi arrestarlo alla clinica Maddalena del capoluogo siciliano, dove era registrato con il nome di Andrea Bonafede (parente di un antico favoreggiatore del boss). Adesso, il superlatitante potrebbe comparire per la prima volta in un’aula giudiziaria giovedì 19 gennaio nell’aula bunker del tribunale di Caltanissetta, dove è imputato come mandante delle stragi di via D’Amelio e Capaci. Fino a questo momento era stato giudicato da latitante e tutto il processo si era svolto in sua assenza.

Messina Denaro, trasferito subito in una località segreta, sarà destinato ad un carcere di massima sicurezza, un istituto che gli possa permettere di seguire le sue cure, come ad esempio Parma, dove già furono reclusi Riina e Provenzano: la premier Giorgia Meloni parla di regime di “carcere duro” e il procuratore Maurizio de Lucia scandisce che le condizioni del boss “sono compatibili col carcere”. L’ipotesi più accreditata delle ultime ore è che il boss venga detenuto nel carcere dell’Aquila, poiché è una struttura di massima sicurezza che ha già ospitato personaggi di spicco ed anche perché nell’ospedale del capoluogo c’è un buon centro oncologico.

L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano, a Trapani, è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Una indagine tradizionale: nessun pentito, nessun anonimo. Messina Denaro è stato preso grazie alla stessa strategia che portò all’arresto del boss Bernardo Provenzano: prosciugare l’acqua attorno al latitante, disarticolando la rete dei favoreggiatori. Favoreggiatori anche eccellenti: “Una fetta della borghesia lo ha aiutato”, dice il procuratore de Lucia. È accaduto questo. E i familiari del boss stretti dalla morsa degli investigatori alla fine hanno fatto l’errore fatale. Andrea Bonafede avrebbe un anno fa subito un intervento al fegato alla Maddalena. Ma nel giorno in cui doveva trovarsi sotto ai ferri, hanno scoperto i magistrati, Bonafede era a casa sua a Campobello di Mazara. E allora il sospetto che il latitante usasse l’identità di un altro si è fatto forte. La prenotazione di una seduta di chemioterapia a nome di Bonafede ha fatto scattare il blitz.

Ma le indagini non si sono fermate con l’arresto. Perquisizioni sono in corso da ore nel trapanese: Castelvetrano e Campobello di Mazara vengono setacciate palmo a palmo. Gli inquirenti hanno trovato il covo del boss in vicolo San Vito (ex via Cv31), in pieno centro a Campobello di Mazara: è l’ che si sarebbe nascosto negli ultimi anni. La casa è stata perquisita stanotte. Non è ancora noto cosa sia stato trovato all’interno del covo usato dal boss durante l’ultimo periodo della sua latitanza. Centro di 11 mila abitanti in provincia di Trapani, Campobello è a soli 8 chilometri da Castelvetrano, paese di origine di Messina Denaro e della sua famiglia. L’individuazione del covo e la sua perquisizione sono tappe fondamentali nella ricostruzione della latitanza del capomafia. E non solo. Diversi pentiti hanno raccontato che il padrino trapanese era custode del tesoro di Totò Riina, documenti top secret che il boss corleonese teneva nel suo nascondiglio prima dell’arresto, fatti sparire perché la casa, a differenza di ora, non venne perquisita. Alle 8.30 al covo sono arrivati gli uomini del Reparto investigazioni scientifiche del boss trapanese che stanno passando al setaccio l’abitazione. Sul posto anche il capitano dei carabinieri della compagnia di Mazara del Vallo Domenico Testa. Messina Denaro viveva in una casa che negli ultimi mesi, dopo il trasferimento dei proprietari, è rimasta disabitata.

Mi chiamo Matteo Messina Denaro“, aveva detto con fare arrogante al carabiniere del Ros che stava per arrestarlo. Il padrino di Castelvetrano è finito in manette alle 8.20, mentre stava per iniziare la seduta di chemioterapia alla clinica Maddalena di Palermo, una delle più note della città. Quando si è reso conto d’essere braccato ha accennato ad allontanarsi, ma non si può parlare di una vera e propria fuga visto che decine di uomini del Ros, armati e col volto coperto, avevano circondato la casa di cura. I pazienti, tenuti fuori dalla struttura per ore, si sono resi conto solo dopo di quanto stava accadendo e hanno applaudito i militari ringraziandoli. Stessa scena fuori dalla caserma Dalla Chiesa, sede della Legione, dove nel pomeriggio il procuratore de Lucia, l’aggiunto Paolo Guido, il generale del Ros Pasquale Angelosanto e il comandante palermitano del Raggruppamento Speciale Lucio Arcidiacono hanno tenuto una conferenza stampa. Una piccola folla ha atteso i pm e mostrato uno striscione con scritto: “Capaci non dimentica”.

“Allo stato non abbiamo elementi per parlare di complicità del personale della clinica, anche perché i documenti che esibiva il latitante erano in apparenza regolari, ma le indagini sono comunque partite ora”, aveva dichiarato il pm Maurizio De Lucia. La carta di identità di Andrea Bonafede sarebbe stata falsificata da Matteo Messina Denaro, apponendo una sua foto al posto di quella del signor Bonafede.

“Ci è apparso in buona salute e di buon aspetto, non ci pare che le sue condizioni siano incompatibili con il carcere – ha spiegato l’aggiunto di Palermo Paolo Guido alla conferenza stampa – Era di buon aspetto, ben vestito, indossava capi di lusso ciò ci induce a dire che le sue condizioni economiche erano buone. Ovviamente sarà curato come ogni cittadino ha diritto essere curato“. Al momento della cattura indossava anche un orologio molto particolare del valore di 30-35mila euro.

Tracce del boss superlatitante risalenti al gennaio del 1994 lo collocavano in Spagna, a Barcellona, dove si sarebbe sottoposto, presso una nota clinica oftalmica, ad un intervento chirurgico alla retina. Ma non solo: avrebbe accusato, sempre secondo risultanze investigative di alcuni anni fa, una insufficienza renale cronica, per la quale avrebbe dovuto ricorrere a dialisi. Per non rischiare l’arresto durante gli spostamenti per le cure ed i trattamenti clinici, il boss avrebbe installato nel suo rifugio le apparecchiature per la dialisi. Una importante conferma sulle patologie accusate dal superlatitante giunse nel novembre scorso dal pentito Salvatore Baiardo, che all’inizio degli anni ’90 gestì la latitanza dei fratelli Graviano a Milano. In un’intervista televisiva, su La7 a Massimo Giletti il pentito rivelò che Matteo Messina Denaro era gravemente malato e che proprio per questo meditava di costituirsi.

Chi è Matteo Messina Denaro? Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina. Nel 1993 scrisse una lettera alla fidanzata dell’epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, preannunciando l’inizio della sua vita da Primula Rossa. “Sentirai parlare di me – le scrisse, facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue – mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità”. Il capomafia trapanese è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia (la famiglia ha commentato l’arresto così: “Ora dovrà rispondere davanti alla giustizia umana, oltre che a quella divina”), per le stragi del ’92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del ’93 a Milano, Firenze e Roma. Messina Denaro era l’ultimo boss mafioso di “prima grandezza” ancora ricercato. Per il suo arresto, negli anni, sono stati impegnati centinaia di uomini delle forze dell’ordine. Una latitanza da record come quella dei suoi fedeli alleati Totò Riina, sfuggito alle manette per 23 anni, e Bernando Provenzano, riuscito a evitare la galera per 38 anni.

Chi è Giovanni Luppino, il fiancheggiatore di Matteo Menna Denaro? È un commerciante di olive, agricoltore di mestiere, incensurato. È stato lui a portarlo in macchina presso la clinica privata di Palermo per le cure. Luppino è di Campobello di Mazara, paese vicino a Castelvetrano. Da qualche tempo gestiva, insieme ai figli, un centro per l’ammasso delle olive cultivar Nocellara del Belìce proprio alla periferia di Campobello di Mazara. La sua funzione era quello di intermediario tra i produttori e i grossi acquirenti che, in zona, arrivano dalla Campania.

Una curiosità: ad assistere all’arresto è stato anche l’ex bomber Totò Schillaci, capocannoniere ai Mondiali del 1990 con la maglia azzurra, testimone inconsapevole. Schillaci, infatti, si trovava in ospedale e aspettava di entrare: “Ero nella zona del bar, non sono nemmeno arrivato a entrare perchè mi stavo fumando una sigaretta quando ho visto arrivare tutti improvvisamente incappucciati, mascherati con il passamontagna e ci hanno fermato. Non sono riuscito a vedere molto, perchè ci hanno detto di rimanere fermi dove eravamo. Sembrava un manicomio, sembrava una scena da far west per quello che stava succedendo“.

Da Messina a Matteo Messina Denaro: è un’epopea quella del pm di Palermo Maurizio de Lucia. “Abbiamo catturato l’ultimo stragista responsabile delle stragi del 1992-93 – ha detto De Lucia in una conferenza stampa dopo l’arresto – Siamo particolarmente orgogliosi del lavoro portato a termine questa mattina che conclude un lavoro lungo e delicatissimo. È un debito che la Repubblica aveva con le vittime della mafia che in parte abbiamo saldato. Catturare un latitante pericoloso senza ricorso alla violenza e senza manette è un segno importante per un paese democratico“. Un traguardo storico quello della cattura di Matteo Messina Denaro, ma anche personale per il procuratore Maurizio de Lucia, dall’ottobre 2022 in carica a Palermo ma prima a Messina. Campano, 61 anni, era stato a lungo Pm a Palermo, poi in direzione nazionale antimafia e negli ultimi anni a capo della Procura di Messina, il procuratore Maurizio De Lucia ha una lunga esperienza di indagini di mafia.

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