“Libellulə” è un progetto che nasce dalla sinergia e dalla contaminazione di quattro donne: Silvia Grasso, Venera Leto, Laura Lipari e Serena Todesco (bio in calce). Attraverso la ricerca, la scrittura, i libri e la passione l’intento comune è far emergere aspetti poco noti del mondo letterario femminile e in generale di soggettività che vengono relegate ai margini. L’obiettivo è porre un focus su tematiche attuali e far riflettere sulla necessità di instaurare un dialogo tra i generi e modificare alcuni retaggi culturali. Il titolo è un omaggio a “La Libellula” di Amalia Rosselli ed è un augurio di leggerezza ed equilibro per chiunque lotti per la propria autodeterminazione. Di seguito la quarta puntata.
Venera Leto intervista Giulia Muscatelli
Giulia Muscatelli (Torino, 1989) si occupa di progetti di comunicazione per le aziende, di archivi e musei d’impresa. È consulente per la direzione creativa e artistica di alcuni centri culturali della sua città. Scrive articoli di approfondimento per diverse testate. “Balena”, edito da nottetempo, è il suo primo libro.
Hai definito Balena, il tuo esordio letterario, come un memoir inaffidabile. Puoi raccontarci il perché?
Ogni memoir è inaffidabile perché è la memoria ad esserlo. Nel momento in cui le cose accadono smettono di essere verità assoluta e diventano elaborati della nostra mente, ricordi impastati con ciò che abbiamo sentito e provato, con le nostre emozioni che sono sempre soggettive e parziali rispetto alla realtà dei fatti. Ma non importa, il punto non è fare una cronaca ma raccontare una visione.
Il libro nasce dall’elaborazione di un lutto: dopo viene il corpo. Un corpo che soffre e che reagisce all’assenza. Balena può considerarsi la storia di una duplice metamorfosi?
Non saprei, non la vedo come una doppia metamorfosi, forse non la vedo neanche come una singola metamorfosi, ma più che altro come il naturale svolgimento del dolore che attraversa un corpo, ci passa proprio all’interno, si sofferma nello stomaco e nel cuore e poi va via, lasciando tracce di sé.
Spesso il tuo libro è stato associato al tema dei disturbi alimentari. Per la nostra generazione affrontare queste tematiche era un tabù. Credi che le cose oggi siano cambiate e certe malattie più riconoscibili?
Penso che oggi se ne parli molto di più e ci sia molta più educazione a riguardo, sia per i bambini che per gli adulti. Anche le narrazioni –libri, film, serie tv – rappresentano un grande contributo, raccontando queste patologie fanno sentire le persone che ne patiscono meno sole, e forse danno loro coraggio per chiedere aiuto. Rispetto a vent’anni fa, quando io sono stata male, c’è più interesse ad indagare cosa si nasconde dietro certi atteggiamenti; nella mia scuola se mangiavi tanto eri una cicciona, se mangiavi poco eri una attenta alla linea, fine. Il cibo, e quindi i disturbi alimentari, non erano visti come un’espressione del malessere. Adesso le cose sono cambiate, adesso abbiamo nuovi strumenti per porci nuove domande. Quando avevo dodici anni, invece di essere chiamata Balena avrei tanto voluto che qualcuno mi facesse delle domande.
Nel corpo di ogni donna vi è sempre una dimensione personale ed una politica. Qual è lo spazio di Giulia e quale quello di Balena rispetto a questa lettura?
Per me è una dimensione unica, personale e politico sono fusi e integrati in tutto quello che penso, dico e faccio. Il personale è politico: sono passati più di cinquanta anni da quello slogan ma io lo sento ancora risuonare forte nella mia scrittura e nel modo in cui conduco la mia vita ogni giorno, da come scrivo un articolo a come saluto il cassiere quando esco dal supermercato. E penso valga lo stesso per Balena: parte della sua sofferenza era dovuta al fatto che, sebbene nel momento non riuscisse a interiorizzarlo, sapeva che ciò che le stava capitando era a causa di un sistema più grande di lei, che quasi costringeva gli altri ad oggettivizzarla e deriderla.
Lo stigma del corpo grasso è ancora oggi intrinseca nelle abitudini della nostra società. Come si potrebbe lavorare secondo te per liberarci definitivamente della fatphobia?
Mostrando i corpi nella loro pluralità sempre e ovunque. Non basta una serie tv progressista o qualche post di Instagram; le persone grasse devono essere nelle pubblicità dei telefoni, dell’intimo, delle agenzie viaggi o altro, devono essere protagoniste di film e serie, essere in gara a Sanremo o a XFactor, tutto questo senza che nessuno rimarchi ogni dieci secondi che sono grasse.
Credi che essere scrittrice oggi donna oggi sia ancora faticoso e perché?
Certo che lo è! Alle mie presentazioni si vedono pochissimi uomini perché quando leggono la quarta del mio libro e trovano una protagonista donna la maggior parte di loro pensa che la storia non possa riguardarli. A uno scrittore questo capita? E questo vale anche per la critica, composta in grande parte da uomini, che non calcola alcuni testi con tematiche femministe perché ritenuti poco interessanti a priori. Praticamente, decidendo di avere come protagonista una donna che parla dell’essere donna, è come se io avessi dimezzato i miei possibili lettori. Eppure, noi donne abbiamo letto milioni di libri con protagonisti uomini che raccontano cosa significa essere uomo.
E ancora: è difficile perché devi sempre fare i conti con la tua immagine, con quello che mostri del tuo corpo, preoccuparti del fatto che forse qualcuno potrebbe non prenderti sul serio perché hai i capelli rosa o perché posti la foto di una borsa che ti piace, mentre gli uomini possono fare qualsiasi tipo di sciocchezza ed essere ritenuti, al massimo, un po’ sopra le righe.
Sui social assistiamo quotidianamente a fenomeni di hate speech soprattutto nei confronti di donne che si espongono personalmente. Pensi che essere donne ci renda un bersaglio più facile?
Penso che siano così tante le cose per le quali veniamo giudicate che sia più facile prendersela con noi. Pensaci, veniamo giudicate per ilcorpo, per la voce, per come siamo madri, per come non lo siamo, per come parliamo, camminiamo, fumiamo o non fumiamo… Potrei andare avanti per pagine. Nonostante questo, io mi rifiuto di pensare di essere un bersaglio per qualcuno o meglio: so che posso esserlo ma non per questo rinuncio a raccontare le mie idee, anzi.
Qual è il tuo messaggio di pace che vorresti dare a chiunque inciti all’odio?
Che fatica! Ma invece di sprecare tante energie nell’odiare l’altro, non faresti meglio a mangiarti un gelato? Guarda che bel sole che c’è là fuori!