“Libellulə” è un progetto che nasce dalla sinergia e dalla contaminazione di quattro donne: Silvia Grasso, Venera Leto, Laura Lipari e Serena Todesco. Attraverso la ricerca, la scrittura, i libri e la passione l’intento comune è far emergere aspetti poco noti del mondo letterario femminile e in generale di soggettività che vengono relegate ai margini. L’obiettivo è porre un focus su tematiche attuali e far riflettere sulla necessità di instaurare un dialogo tra i generi e modificare alcuni retaggi culturali. Il titolo è un omaggio a “La Libellula” di Amalia Rosselli ed è un augurio di leggerezza ed equilibro per chiunque lotti per la propria autodeterminazione. Di seguito la sesta puntata.

Silvia Grasso intervista Giusi Marchetta

Il primo ricordo che ho legato all’universo Disney, risale a quando facevo ingresso in una sala cinematografica per vedere il mio primo cartone animato firmato dalla grande industria dei sogni americana. Era il 1992, io avevo 2 anni e il film era Aladdin. La protagonista femminile, Jasmine, fu la prima principessa Disney che entrò nel mio immaginario fantastico che si sarebbe costruito su principi e principesse, orchi e fate.

Jasmine rispettava tutte le caratteristiche di una principessa: contesa tra due uomini (uno buono Aladdin, l’altro cattivo, Jafar) e di nobile famiglia, di lei non conosciamo aspirazioni o desideri, volontà o progetti. Di lei sappiamo solo che si aspetta di essere salvata dal suo innamorato e che – soprattutto – si realizzi l’unico sogno che le è concesso: sposarsi. Con il tempo, scoprirò che le principesse oltre a condividere tutte lo stesso destino come da copione, condividono anche una serie di costrizioni che le hanno ingabbiate in stereotipi ben precisi, stereotipi che hanno affascinato e plasmato la vita immaginaria di qualsiasi bambina della mia generazione costruendone aspettative e finti desideri ben lontani dalla realtà.

Giusi Marchetta, insegnante e scrittrice, con il suo saggio Principesse. Eroine di ieri e femministe di oggi edito da Add editore, mette in luce tutte le gabbie dorate e gli stereotipi costruiti e veicolati dal modo in cui le donne sono state rappresentate nel mondo fantastico, dalle principesse del mondo Disney alle eroine e guerriere delle serie Tv più famose degli anni ’90.

Uno dei presupposti del tuo saggio è che le fiabe e, più esattamente, le storie hanno contribuito alla costruzione degli stereotipi in cui ci siamo trovate imprigionate da adulte. Mi piacerebbe partire proprio da questo: chi ha avuto il potere di raccontare le storie? E secondo te chi dovrebbe farlo oggi?

«Sappiamo tutti che l’essere umano ha bisogno di storie e che le produce da sempre. Sono una forma di conoscenza della realtà ma anche di trasmissione di valori e di modi di vedere il mondo. Non è un caso che le narrazioni orali come le leggende, le fiabe e perfino i poemi omerici abbiano poi trovato forma scritta: si cerca di fare di queste storie un’eredità che resti nel tempo per le generazioni successive. La forma scritta può “fermare” una versione di queste narrazioni che però nel caso delle fiabe non è mai unica, si accompagna a diverse versioni a seconda delle culture che la raccontano. Secondo Zipes, una narrazione viene selezionata e tramandata acquisendo popolarità attraverso la ripetizione. Questo significa che una cultura sceglie una certa narrazione perché vuole tramandare un punto di vista sul mondo e ne innesca la ripetizione. Quando dico cultura mi riferisco non solo a tutta una comunità (le fiabe irlandesi) ma a chi in una società patriarcale ha più potere nel trasmettere i propri valori. Ad esempio Cappuccetto rosso nasce nell’ambiente delle sarte: presenta un cattivo che è un uomo, non un lupo, e la ragazza si salva da sola alla fine della storia. Nel XIX invece ad opera di uno scrittore la fiaba viene modificata perché diventi un monito alle ragazze ingenue e questa  versione, ripetuta e supportata da una cultura che pensa che spetti alle ragazze difendersi da un lupo che è un uomo, arriva fino a noi. A chi spetta raccontare le storie quindi? Nel nostro passato a chi aveva diritto di parola, adesso direi a tutti e a tutte».

Favole e fiabe sono riscritte da sempre. È nella loro natura essere soggette a reinterpretazioni, adattamenti e modifiche che tendono ad adeguarsi a contesti storici e alle esigenze delle lettrici e lettori. Tuttavia, ultimamente assistiamo a reazioni molto violente che si oppongono a qualsiasi tipo di modifica delle storie più famose che hanno fatto parte della nostra formazione. Secondo te a cosa si deve questa resistenza al cambiamento?

«A me sembra naturale che ci sia una resistenza nel vedersi in qualche misura tolte le storie della propria infanzia. Ma non solo. Questa resistenza si vede anche nell’accademia quando si chiede di mettere in discussione un canone letterario selezionato per mettere al centro l’esperienza maschile e lasciando ai margini tutte le altre. Penso che il patrimonio culturale sia una questione identitaria molto forte soprattutto oggi perché solo negli ultimi anni sta venendo messo in discussione in modo così forte e questo crea un certo smarrimento perché vengono “toccati” e visti sotto una nuova luce personaggi storici o concetti che sembravano eterni e scontati nella loro esemplarità. In un certo senso mettere in discussione queste cose ti chiede di riflettere su una parte di te e a volte di rinnegarla».

Una delle caratteristiche di qualsiasi principessa che si rispetti è il lieto fine che viene rappresentato dal matrimonio con il principe azzurro. In che modo, secondo te, l’idea dell’amore romantico ha contribuito a costruire l’immaginario delle principesse influendo di conseguenza sulle aspettative delle donne?

«Direi che è il contrario. La funzione della principessa è il matrimonio perché il ruolo delle donne nella società patriarcale è quello di moglie e madre. È solo un po’ difficile convincerti che la tua esistenza si esprima solo in queste due forme e che tu non sia una persona completa senza un uomo accanto a meno che tu non costruisca un immaginario in cui questo diventi desiderabile. L’amore romantico “venduto” in questa forma nei libri, al cinema, nella vita quotidiana riesce a rendere prioritaria la relazione sui bisogni della singola persona. Solo che in una società patriarcale il terreno non è paritario: in un rapporto di coppia (dal lavoro domestico a quello di cura alla maternità) alla donna si chiederà di più cosa che viene ignorata (o opportunamente cancellata) dalle narrazioni romantiche eterosessuali tradizionali».

Nel tuo saggio possiamo leggere dei preziosi contributi di alcune bambine con cui hai parlato e che hanno condiviso con te le loro idee riguardanti le principesse. Su alcune di loro le principesse esercitano ancora una suggestione molto forte (esattamente come la esercitavano sulle bambine negli anni ’90), su altre, invece, sembrano non attecchire più. Che tipo di immaginario è quello delle bambine di oggi? In che modo le cose sono cambiate e quali sono gli archetipi che, secondo te, esercitano più fascino?

«È una bella domanda e mi piacerebbe che qualcuno rispondesse. Mi piacerebbe che si ascoltassero le bambine e si capisse in che modo viene colonizzato oggi il loro immaginario e cosa sognino. In generale mi piacerebbe che si ascoltassero bambine e ragazze per capire quanta forza impieghino a volte per scrollarsi di dosso certe aspettative e per non sentirsi sbagliate. O con quante paure le costringiamo ancora a crescere. Credo che una ricerca del genere dovrebbe estendersi ai social ma anche all’ascolto dei coetanei maschi perché il rapporto tra pari è capace di formarti in modo più efficace di quello con gli adulti. In questo senso l’immaginario delle bambine fa sempre i conti con quello che i compagni ti rimandano. Di sicuro stiamo facendo dei passi avanti nei libri, nei film e nelle serie tv. Il loro immaginario è più ricco del nostro».

A proposito di bambine, nel tuo saggio l’elemento generazionale è molto forte. Non solo perché si riescono ad intercettare voci di generazioni diverse ma anche perché nel viaggio che compi nella storia delle rappresentazioni femminili, dalle principesse Disney alle eroine e donne guerriere delle serie Tv, si riescono ad intercettare le varie fasi delle ondate femministe che hanno caratterizzato generazioni diverse: dal femminismo della differenza al femminismo egualitario, passando dal femminismo liberale e da quello dell’empowerment femminile. A che punto della storia dei femminismi ci troviamo oggi? E quali sono le soggettività che secondo te devono essere urgentemente rappresentate?

«Mi sembra un momento molto interessante per chi si avvicina al femminismo perché penso che attraversare diverse fasi del pensiero femminista abbia permesso di riflettere su quello che non andava nei movimenti del passato. Non a caso in questi anni si vede una profonda frattura tra le femministe della differenza e quelle intersezionali che hanno raccolto l’eredità anche del black live matter e delle lotte lgbtq. È interessante questa frattura perché dimostra che il femminismo è davvero una lente con cui guardare il mondo e che abbraccia quindi temi come l’ecologia, l’economia, i diritti umani. Nonostante queste ramificazioni a volte inconciliabili, credo che potremmo definire questo periodo come un post Me too. Anche se nel nostro paese purtroppo non abbiamo forse vissuto l’impatto che il Me too  ha avuto negli Stati Uniti, mi sembra che un’ondata di consapevolezza sia arrivata anche qui, almeno nelle ragazze e nelle donne che sono sempre più stanche di subire e forse cominciano a pensare maggiormente in termini di collettività. A questo hanno contribuito anche molto i social e gli account come il tuo che fanno informazione e divulgazione. Del loro impatto sulla formazione degli immaginari moderni penso si parlerà molto quando ci sarà il modo o la volontà di studiarlo».

Che tipo di principessa, eroina, guerriera, era (o non era) Giusi Marchetta?

«Decisamente non ero una principessa. Né un’eroina o una guerriera. Da piccola giocavo a fare Conan di Myazaki ma anche in quello non ero abbastanza giusta per la parte. Forse davvero come scrivo nel libro tra tutte le figure immaginarie della mia infanzia la Sirenetta è stata l’unica a penetrare una corazza di confusione e di timore nei confronti del mondo perché ha rischiato tutto per realizzare un sogno e ha superato un confine accettando di cambiare. Anche se la sua fine tragica mi sembrava inevitabile e nemmeno con la fantasia sono riuscita a darle un finale diverso, a salvarla: mi commuove un po’ pensare che dopo trent’anni sia tornata e mi abbia chiesto di riprovarci».

 

 

 

 

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