Riceviamo e pubblichiamo un contributo dell’antropologa Giuliana Sanò in merito alla sempre calda tematica “migranti”, legata nello specifico alle misure regionali anti Covid e al recente caso di cronaca avvenuto nell’ex caserma di Bisconte, da cui ieri notte si sono allontanati 24 cittadini tunisini giunti in città lunedì (durante la fuga, riporta la Gazzetta del Sud, è rimasto ferito ad una gamba un agente della Guardia di Finanza).

Di seguito il suo intervento:

In questi tempi di Covid e di misure di sicurezza adottate dai governi nazionali e locali per prevenire il rischio di una risalita e di una nuova diffusione del virus, a Messina (ma non solo) sono le persone migranti a far discutere e a spaccare in due l’opinione pubblica circa la necessità di istituire delle “navi quarantena”, destinate a confinare in mare chi tenta di raggiungere le coste dell’Italia meridionale passando dalla rotta del Mediterraneo Centrale.

Provando a scontornare la natura delle ordinanze previste dal governo regionale volendole, cioè, privare dei contorni retorici di cui normalmente si avvalgono per fare presa sulla cittadinanza impaurita dalla possibilità di nuovi contagi ciò che immediatamente colpisce di questa faccenda sono le mosse, a dir poco paradossali, di un governo che per un verso individua nelle persone migranti la fonte di un reale pericolo, mentre per un altro, sostiene e invoca l’arrivo di turisti provenienti dal nord Italiada territori che al momento rimangono tra quelli maggiormente colpiti dall’epidemia al fine di scongiurare la crisi di uno settori economici più importanti dell’isola, ossia quello turistico.  

Ma a Messina le persone migranti fanno discutere anche per altre ragioni. Questa mattina, le principali testate locali hanno diffuso la notizia di una serata di tensione all’Hotspot di Bisconte. A determinare il livello di massima allerta e preoccupazione tra gli abitanti del quartiere, il tentativo di fuga di un gruppo di persone rinchiuse all’interno del centro. A seguito di questo episodio, i consiglieri Libero Gioveni e Alessando Cacciotto hanno dichiarato: La situazione è diventata grave e sta purtroppo gettando nel panico un intero Villaggio. Nella tarda serata di ieri, intorno alle 21:30, diversi residenti ci hanno contattato perché si è registrata una nuova situazione di caos. I migranti hanno tentato di scappare (forse qualcuno è scappato) le forze dell’ordine erano presenti ma la situazione è davvero al collasso”.

Già nel 2017, la fuga di un gruppo di persone dalla struttura Hotspot di Bisconte aveva spinto una parte della popolazione residente in quel quartiere a denunciare l’accaduto. In quella circostanza, i residenti riferivano di aver visto alcune persone arrampicarsi sui tetti delle case confinanti, con l’obiettivo di entrarvi e di compiere razzie. Circostanza riportata anche da qualche consigliere comunale e di quartiere, ma poi smentita dagli organi di polizia. Le persone che erano state avvistate sui tetti avevano come unico obiettivo quello di allontanarsi dalla struttura; una struttura che, vale la pena ricordare, è stata istituita dall’Agenda Europea sulle migrazioni e il cui unico scopo è quello di identificare le persone appena giunte sul territorio e di distinguerle sulla base della candidabilità alle procedure per la richiesta di protezione internazionale. In altre parole, lo scopo di queste strutture è quello di valutare i requisiti dei neo arrivati e di dividere i/le richiedenti asilo dai cosiddetti “migranti economici”.

Tra le novità introdotte dal decreto Salvini (o decreto sicurezza) vi sono anche quelle relative all’allungamento dei tempi di attesa all’interno di queste strutture, sino a 30 giorni. Insieme al prolungamento dei tempi, il decreto dell’ex Ministro degli Interni ha però compiuto un ulteriore passo in avanti rispetto a quelli emanati dai suoi predecessori. Mentre fino al 2017 la legittimità del trattenimento delle persone all’interno di queste strutture era fondamentalmente priva di basi giuridiche, giacché che queste fossero “dei luoghi chiusi” lo si poteva dedurre solo dai comportamenti arbitrari dei singoli gestori, i quali impedivano l’uscita delle persone dai centri. Con l’entrata in vigore del decreto sicurezza si stabilisce formalmente e legalmente che gli Hotspot siano dei “luoghi chiusi” per coloro i quali hanno richiesto di accedere alle procedure per la domanda di protezione internazionale e si trovano, quindi, in attesa di una valutazione che il più delle volte viene elaborata sulla base di requisiti generici, come il paese di provenienza, e non già delle condizioni e delle motivazioni individuali che li hanno portati a lasciare il proprio paese, così come invece è previsto  dalla Convenzione di Ginevra.  

Il decreto sicurezza stabilisce, quindi, che gli Hotspot siano dei “luoghi chiusi” per i richiedenti protezione internazionale e contestualmente allunga i tempi di attesa di valutazione della domanda per accedere alle procedure sino a 30 giorni. E i cosiddetti “migranti economici”? Che fine fanno? La legge, infatti, pur disciplinando e facendo chiarezza sulla natura detentiva di questi centri, non sgombera il campo da ulteriori equivoci e fraintendimenti. Dichiarando che queste misure di contenimento valgono per i “potenziali” richiedenti asilo, non chiarisce affatto se tali misure siano da ritenersi valide o no anche per coloro i quali sono stati riconosciuti come “migranti economici”.

Nell’impossibilità di stabilire delle regole chiare, ciò che normalmente si verifica è che tutte le persone all’interno di questi centri, sia che si tratti di potenziali richiedenti asilo sia che si tratti di “migranti economici”, vengano ingiustamente trattenute.

Queste premesse risultano utili al lettore digiuno di politiche migratorie poiché esse gettano luce sia sull’opacità che contraddistingue il funzionamento del sistema di accoglienza in Italia, sia sulla quantità di violazioni che vengono di volta in volta legittimate dal legislatore di turno e compiute, quasi senza eccezioni, dalle cooperative che gestiscono i centri.

Alla sommaria lettura e spiegazione degli aspetti procedurali (tempi, spazi e natura dei centri) che connotano il sistema di accoglienza, va però affiancata un’interpretazione delle ragioni ideologiche che stanno alla base delle politiche migratorie e così pure degli esiti politici che questi pongono in essere.

La formalizzazione delle misure detentive attuata dal precedente governo mediante i decreti sicurezza (I e II), suggerisce, infatti,una lettura degli eventi che vede l’Italia (ma non solo) tra i principali paesi europei in cui si è affermata, da almeno 20 anni, la tendenza a una criminalizzazione del diritto dell’immigrazione; una tendenza che in letteratura compare sotto il termine di “crimmigration”.

Per tornare al nostro ragionamento sulla natura degli Hotspot, in mancanza di chiarezza relativamente al destino dei “migranti economici” rinchiusi in queste strutture, l’istituzionalizzazione di “luoghi chiusi” formalizza, di fatto, l’esistenza di un pericolo e concretamente lo traduce nella realizzazione di strutture circondate da mura altissime e da filo spinato. In altre parole, siamo in presenza di un fenomeno in cui è la struttura (la sua natura detentiva) a caratterizzare le persone che vi sono all’interno e non il suo contrario. In questo senso, il riferimento alla “crimmigration appare opportuno, giacché nella circostanza che stiamo analizzando il “detenuto” non è tale in ragione di un crimine o di un reato commesso, ma in virtù del fatto che si trova in quella struttura e non, per esempio, in un’altra.

Continuando in questa direzione, alcuni esempi potranno aiutarci a capire meglio con quali anomalie e paradossi ci misuriamo ogni qualvolta abbiamo a che fare con le politiche e le pratiche attuate in materia di immigrazione.

Nella mia esperienza di operatrice legale per persone ospiti di progetti Sprar (ora Siproimi) e di tutrice volontaria per minori stranieri non accompagnati (incarichi che ho svolto per e con il Circolo Arci Thomas Sankara) mi è capitato di assistere in più di un’occasione all’allontanamento volontario degli ospiti. Ai fini del nostro ragionamento, è bene rammentare che in questi casi le persone vivono all’interno di comunissimi appartamenti o all’interno di strutture aperte, dalle quali si può liberamente entrare e uscire. Tra gli operatori e le operatrici di questi centri, gli allontanamenti hanno sempre destato preoccupazioni riconducibili al destino di queste persone: che fine faranno? Come faranno a mantenersi? Riusciranno a passare il confine senza essere fermati e portati indietro? Saranno finiti in mano ai trafficanti?

Queste erano le domande e le preoccupazioni che ci assillavano e l’unica rassicurazione possibile proveniva dal fatto che si trattava di un “allontanamento volontario” e non “forzato”. Non avevamo né ragioni e né argomentazioni convincenti tali da impedire alle persone di andare alla ricerca di cosa in quel momento fosse meglio e più conveniente per loro. Sicuramente, gli abitanti dei quartieri in cui queste strutture sono tutt’oggi collocate non hanno mai avvertito il loro allontanamento come una fonte di pericoli imminenti, anzi con tutta probabilità non se ne sono nemmeno accorti.

Fatti questi esempi e chiarite le distinzioni tra l’episodio di ieri sera e le svariate volte in cui io stessa ho assistito all’allontanamento delle persone che vivono all’interno di centri e di strutture di accoglienza, non rimane che tirare le somme su quello che apparentemente può apparire come un caso di cronaca – e quindi degno della massima attenzione mediatica ma che, stando ai fatti, ci conduce a ritenere valida l’ipotesi che con tutta probabilità si sia trattato di altro.

È possibile, infatti, che in questa vicenda abbiano giocato altri fattori: per esempio, il fatto che in realtà le persone che hanno abbandonato il centro, forzando i sigilli all’ingresso, erano state temporaneamente collocate nel CAS e non nell’Hotspot, in attesa di terminare la quarantena. Quarantena le cui ragioni andrebbero chiarite dal momento che per chi arriva dalla Tunisia non ricade l’obbligo di isolamento e che, a ben guardare, potrebbe rivelare, egualmente all’ordinanza relativa alle “navi quarantena”, che l’epidemia e la paura del contagio vengano strumentalizzate dai governi nazionali e locali per applicare misure ancora più restrittive nei confronti delle persone migranti, stigmatizzando la condizione di chi arriva per cercare protezione e non, come ha recentemente dichiarato Salvini in visita a Barcellona Pozzo di Gotto, per ragioni legate al turismo.

Lo spostamento da una zona all’altra dell’enorme struttura di Bisconte è riconducibile al fatto che attualmente all’interno del Cas vigono controlli più serrati di quanti non ve ne siano nellHotspot, dal quale – a quanto pare risulta più semplice scappare.

Sulla base di criteri totalmente arbitrari e informali, motivati dall’epidemia e dalla mancanza di spazi attrezzati, all’interno di questi centri le persone vengono quindi redistribuite come pacchi postali. A ciò si aggiunge il fatto che le persone coinvolte nella fuga fossero tutte di nazionalità tunisina e, quindi, destinate – come è già capitato – a essere trasferite a Bari e poi da lì rimpatriate in Tunisia.

Risulta, allora, apprezzabile e oltremodo sensato che i consiglieri, diversamente da quanto avevano fatto in passato, abbiano voluto in questa occasione sollevare delle perplessità circa la gestione di questi centri, dichiarando che: “bisognerebbe capire perché queste persone scappano (…) e che accoglienza e sicurezza devono convivere”

Quello che rimane incerto è però di quale sicurezza si stia parlando e, soprattutto, di chi.

Che l’allontanamento di alcune persone possa scatenare “il panico” tra i residenti non sembra del tutto plausibile, se non a partire dal ragionamento che abbiamo fatto in precedenza, secondo il quale è la struttura di accoglienza a definire il grado di pericolosità delle persone che vi risiedono, laddove i muri e i recinti di filo sprigionano l’idea del pericolo e producono tra gli abitanti del quartiere la convinzione e la concreta percezione che quelle persone siano un pericolo per la comunità, contrariamente a quanto accade invece negli appartamenti e nelle strutture aperte, le quali non destano nessun sospetto e nessuna preoccupazione tra gli abitanti dei quartieri in cui sono collocate.

Abolire queste strutture semi-detentive, in alcuni casi prive di legittimità, è una delle possibili soluzioni, ma ancora più necessario appare oggi il compito di ri-pensare e di ri-fondare la nozione di sicurezza, soprattutto in un momento in cui i centri di detenzione, i grossi centri di accoglienza e le fabbriche, luoghi che per definizione si presentano come chiusi e affollati, rappresentano un reale pericolo per le persone che ci vivono o ci lavorano, e non certo per chi li osserva dall’esterno.

 

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