MESSINA. Riceviamo e pubblichiamo un contributo della antropologa presso l’Università di Messina ed ex operatrice legale per persone ospiti di progetti Sprar Giuliana Sanò, che fa il punto sui posti di lavoro persi per la chiusura (che non è una chiusura) di hotspot e cas alla ex caserma Gasparro di Bisconte.

Di seguito il suo intervento:

In un momento come questo, in cui la crisi sanitaria ha provveduto a ingigantire le già difficili condizioni di molti settori economici e del mercato del lavoro locale, le dichiarazioni rilasciate a Tg Messina dagli operatori e dalle operatrici del Cas (ex caserma Gasparro), ritrovatisi da un giorno all’altro senza nessuna certezza sul proprio futuro lavorativo, fanno riflettere.

In particolare, le dichiarazioni di questi/e lavoratori/trici meritano di essere prese in considerazione non perché questo lavoro sia più essenziale o più importante di altri, ma perché a differenza di altri comparti del mercato del lavoro non vi sono ragioni economiche e strutturali alla base del possibile licenziamento, ma motivazioni esclusivamente politiche.

 Per afferrare a pieno il punto occorre però liberarsi di anni di lavorio sul senso comune e comprendere che sì, anche il lavoro coi migranti è un lavoro: un lavoro di servizio sociale, per l’esattezza. E se l’immigrazione è un “business”, come anni di propaganda leghista hanno abituato molti a pensare, esso lo è alla stessa maniera di quello dei diversamente abili, degli anziani non autosufficienti, dei servizi sociali per minori con disagio, dei malati oncologici e di qualunque altro lavoro che abbia per oggetto soggetti deboli e variamente problematici. Un lavoro, peraltro, che riduce il disagio delle persone coinvolte, ma anche la pressione su una società che sarebbe gravata dagli effetti indiretti derivanti dalle mancanze di cure professionali.   

La vicenda dei lavoratori e delle lavoratrici dell’accoglienza è una questione che dovrebbe interessare l’intera cittadinanza, se non altro perché essa chiarisce senza mezzi termini quale sia il valore delle persone (tanto di quelle migranti quanto di quelle che lavorano nei centri) e in nome di che cosa siamo disposti a far cessare questo valore rendendolo funzionale agli interessi e alle ambizioni elettorali della politica locale. Pensare che in una città in cui la disoccupazione è ai massimi livelli e che ogni giorno si spopola di giovani e meno giovani, le fantasie e i sogni elettorali di qualcuno possano mettere in pericolo il futuro lavorativo di chi un lavoro ce lo aveva e non aveva motivo di perderlo, è un argomento che merita, quindi, la massima attenzione.

Va da sé, che il primo a cui questa faccenda dovrebbe interessare è il sindaco di Messina, colui il quale ha cavalcato il malcontento degli abitanti del quartiere per colpire, una volta in più, i/le migranti ospiti della ex-Caserma e, più in generale, tutte le persone migranti presenti in città. Abbiamo già detto che in nome degli interessi e dei sogni elettorali siamo spesso disposti a far cessare il valore delle persone; sulla base, cioè, di quella convinzione che, da Machiavelli in avanti, abbiamo imparato ad apprendere e a ripetere ogni qualvolta si è reso necessario dare un senso alle azioni della politica, anche quando queste apparivano ingiuste e mortificanti. Se la convinzione a cui dobbiamo appellarci è che “il fine giustifica i mezzi”, occorre allora capire che cosa è stato realmente sacrificato in nome di un fine che altro non è che la campagna elettorale di un Sindaco.

Da quanto abbiamo appreso dai media, al momento a essere stato sacrificato è sicuramente il lavoro (e il futuro) di un ristretto gruppo di lavoratori/trici e delle loro famiglie. Ben poca cosa, quindi, se si considera l’altra faccia della medaglia e, cioè, il consenso elettorale che in questi giorni è cresciuto intorno alla figura del sindaco dopo che egli ha conseguito, almeno a parole, la valorosa impresa di aver fatto chiudere, insieme all’Hotspot, anche il Cas. Tuttavia, ciò che molti dei suoi elettori non sanno e che, probabilmente, non avranno piacere a scoprire, è che al momento il Centro è stato solo temporaneamente svuotato e che da nessuna parte risultano comunicazioni ufficiali che ne attestino la chiusura, per il semplice fatto che questo genere di decisioni non spetta né al primo cittadino, né alla prefettura.

A dispetto, quindi, di comunicazioni parziali e ancora da verificare, ciò che c’è di vero in questa vicenda è che le lavoratrici e i lavoratori sono stati lasciati a casa. Sebbene molti di questi abbiano dei contratti a tempo indeterminato, lo svuotamento del Centro ha inevitabilmente comportato il blocco delle attività della struttura e, di conseguenza, la sospensione delle loro mansioni. Qualunque saranno gli esiti di questa vicenda, il primo risultato è dunque l’angoscia e l’incertezza di persone che lavorano e famiglie che da questo lavoro dipendono. Il secondo è la popolarità conseguita temporaneamente dal sindaco.

 

Un altro aspetto che sono in pochi a conoscere è la funzione del centro di accoglienza straordinario e le anomalie che a causa (o con la scusa) dell’epidemia da Covid-19 si sono verificate all’interno. In un articolo precedente, risalente al mese di luglio, abbiamo già spiegato quali siano le differenze tra un Hotspot e un Centro di accoglienza straordinario, più noto come Cas. Nel primo caso, si tratta di una struttura destinata all’identificazione dei migranti e all’allontanamento di coloro i quali vengono considerati non idonei alla domanda di asilo poiché provengono da Paesi ritenuti, talvolta ingiustificatamente, sicuri. Nel secondo caso, si tratta invece di un centro di prima accoglienza, destinato a chi è stato ritenuto idoneo ed è in procinto di accedere alla procedura per la domanda di protezione internazionale.

Con l’inizio della pandemia, tale distinzione ha però subito delle modifiche, provocando delle alterazioni e delle anomalie nella collocazione delle persone migranti. Da un’intervista alle telecamere di Tg Messina, rilasciata due giorni fa da un operatore dell’accoglienza, abbiamo avuto modo di apprendere che con l’inizio della pandemia quello che avrebbe dovuto continuare a essere un centro di prima accoglienza, si è invece rapidamente trasformato in un centro, per così dire, “polifunzionale”: destinato a contenere sia persone in quarantena sia persone che la quarantena l’hanno già terminata da tempo.

A ciò si aggiunge la singolarità riportata da chi scrive già nel mese di luglio, ossia il trasferimento all’interno del Cas delle persone in regime di detenzione amministrativa, le quali per legge dovrebbero essere collocate nell’Hotspot. La conseguenza più evidente di questo trasferimento è stata la trasformazione del Cas in una struttura chiusa, laddove in base alla normativa non esistono, invece, limitazioni di accesso e di uscita dai centri di prima accoglienza. In concreto, queste rapide trasformazioni hanno comportato che l’originaria funzione del centro, ossia l’accoglienza delle persone migranti ritenute idonee alla procedura per la domanda di asilo, venisse sospesa per far posto tanto al contenimento dei migranti in regime di detenzione amministrativa, quanto alle operazioni di isolamento dei nuovi arrivati.

Per meglio comprendere cosa sia materialmente avvenuto all’interno del Cas e l’anomalia che ciò ha comportato, basterebbe semplicemente evocare quali conseguenze abbia portato in passato la promiscuità di persone sane con persone affette da Covid-19 all’interno di un reparto ospedaliero o di una RSA per persone anziane. Sfortunatamente, nei mesi scorsi abbiamo assistito anche a questi “esperimenti sociali”, complice l’inadeguatezza di certe istituzioni nazionali e locali; ciononostante, in quell’occasione, nessuno si sarebbe mai sognato di chiedere e di ipotizzare la chiusura definitiva dei nosocomi o delle RSA, né tantomeno l’espulsione in massa delle persone ammalate. Ma, come abbiamo già avuto modo di sperimentare, quando certe dichiarazioni riguardano la popolazione migrante ogni ipotesi logica e di buon senso cessa di funzionare.

Agli odiatori di professione, molti dei quali si definiscono sostenitori del primo cittadino, basterebbe quindi far comprendere che i responsabili delle fughe e delle proteste che si sono verificate all’interno del centro non sono i migranti, ma chi ha deciso che un centro di accoglienza venisse trasformato in una struttura dalle molteplici funzioni. Nei giorni precedenti allo svuotamento, il Centro presentava infatti una natura anomala, dovuta all’assenza di attenzione per i singoli status legali degli ospiti (diversi a seconda dei casi e delle biografie personali) e alla mancata adozione di misure finalizzate a separare le persone che erano già da diverso tempo sul territorio e non avevano, quindi, nessuna ragione di essere trattenute e le persone per cui, invece, occorreva l’obbligo dell’isolamento.

Sarebbe bastato isolare i nuovi arrivati in un altro padiglione del plesso o in un’altra struttura e, invece, come spesso accade in queste circostanze si è preferito creare l’emergenza, anche laddove avrebbe potuto non esserci. Ma soprattutto, si è preferito sacrificare un gruppo di lavoratori e di lavoratrici, in nome di un’impresa la cui efficacia è però ancora tutta da dimostrare.

 

 

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