“Eravamo quattro amici al bar” è la canzone che cantava Gino Paoli entrata di diritto tra i cult della musica italiana anche per via del suo spirito anacronistico. Siamo nel 1991. Il muro di Berlino ha appena segnato una svolta nella storia del mondo, Tangentopoli invece è in procinto di devastare la classe politica nostrana. Sull’ospedale Papardo volano nel frattempo i caccia statunitensi in direzione Kuwait: lì si va a combattere la Prima Guerra del Golfo.

In quel frastuono di storia quei quattro amici vengono al mondo. La consapevolezza acquisita nel corso degli anni permetterà loro di comprendere di essere nati forse nel lato giusto dell’emisfero ma probabilmente in un’epoca che avrebbe riservato loro non poche sorprese. E non esattamente felici.

Una consapevolezza che cresce nel corso degli anni, quando quegli stessi amici diventano giovani uomini e sono tutti costretti a lasciare Messina; sono tutti costretti a spostarsi per andare in cerca di un futuro migliore. O forse semplicemente di un futuro.

E quindi Verona, Trieste, Torino, Viareggio, ma anche Londra e Dublino. E ancora New York. L’inizio di un viaggio, un viaggio con tante tappe intermedie e con la mancanza di certezze su quella che sarebbe dovuta essere la tappa finale. Irene Grandi cantava che “prima di partire per un lungo viaggio devi portare con te la voglia di non tornare più”. Forse quegli amici, però, quella voglia non l’avevano mai realmente presa in considerazione. Avevano bisogno soltanto di una scintilla per ricordarsi che forse c’era ancora qualcosa da chiedere a chi fino a quel momento non ti aveva offerto nulla. E ti aveva forse anche preso a calci in faccia.

Quella scintilla è scattata con l’emergenza del coronavirus. Un fatto tragico per il mondo, qualcosa che ha condizionato non soltanto il nostro modo di stare all’interno della società e di vivere gli altri ma soprattutto qualcosa che ha riportato a ripensare gli spazi dei quali abbiamo bisogno, a farci mancare le persone, a spingerci a vedere cosa è veramente importante per noi come persone e non soltanto per noi come studenti o lavoratori. In questo, forse, il coronavirus è veramente servito a migliorarci.

E allora ecco Andrea e Laura, sono belli insieme, si laureano al Politecnico di Torino, sono entrambi giovani ingegneri che sognano di poter costruire la propria vita in questa città. E sognano con la volontà di investire e la consapevolezza che se non saranno loro i capi di se stessi nessun altro sarà disposto a tendere una mano.

Poi c’è un altro Andrea. Lui ha viaggiato e ha conosciuto il mondo e l’Italia in ogni sua sfaccettatura. È una persona alla quale puoi solo voler bene e che nel corso della sua vita ha combattuto per ottenere ogni singolo centimetro di strada conquistata. Andrea è tornato in Irlanda, dove occupa un ruolo di rilievo come legale di una delle più importanti banche italiane, ma come una propensione e una promessa fatta a se stesso: tornare a casa il prima possibile, forse entro l’anno, a costo di rinunciare al prestigio e ai benefits.

Piero è andato via molto presto da Messina, prima Torino e poi a Manchester e adesso a New York dove sta per sposarsi. Lui è sempre stato una persona molto riservata e all’apparenza particolarmente fredda, non avevo mai però ho visto nei suoi occhi la felicità di tornare a casa e abbracciare degli amici dopo l’emergenza coronavirus. Piero forse a Messina non ci potrà tornare mai, ma adesso sa che è qui la felicità.

Gaetano e Silvio invece a casa ci sono tornati. Gaetano perché l’e-learning dell’Università di Trieste non è solo un parolone ma anche un modus operandi. Silvio invece è tornato perché a Londra consentono lo smartworking, che alle nostre latitudini è diventato un southworking. Anche Silvio ha girato il mondo per lavoro tra Belgio, Inghilterra, Ecuador e Costa d’Avorio. Ma anche lui si è reso conto che la felicità è qua, vicino alla sua famiglia.

Ogni estate, anche quando Peppe andava via insieme ad Andrea, Piero, Silvio, Gaetano e ad Andrea, stavo male. Stavo male perché pensavo che tutti questi talenti erano costretti ad andare via da questa città. Quest’anno invece ho pensato a loro e mi sono reso conto che forse, per la prima volta nella loro vita, erano stati in grado di pronunciare una frase: “Mamma, stavolta non parto più”. Insieme a loro tutti i figli di una Messina del futuro, i figli una Messina che tutti noi, e grazie al ritorno di persone come loro, ci auguriamo possa essere migliore di quella che ogni giorno ti droga con la sua bellezza e poi ti risveglia con i suoi pugni in faccia.

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