Di Alessio Caspanello e Laura Lipari (da numero 4 di LetteraEmme Magazine)

PROLOGO. Era strana, Messina, negli anni ’90. Terminati da un pezzo i ’60, quello che resta della “grandeur” dell’epoca, insieme ai ricordi ossessivi dell’Irrera a mare, è quel brano, “In fondo al Viale”, scritto da Salvatore Trimarchi e interpretato dai Gens, che arriva a Sanremo. Poi il vuoto, prima di arrivare a metà degli anni ‘80, col carico esistenziale che si sono lasciati appresso, oscillante tra la depressione e l’euforia.

Messina, che vive un micro boom economico (l’ultimo) drogato dal settore pubblico, si confronta con la vita notturna: non c’è una discoteca propriamente detta, ma c’è un grosso studio di registrazione (l’Analogy, anche etichetta discografica), i  posti in cui esibirsi dal vivo si contano sulle dita di una mano di un mutilato di guerra, ma le radio libere fioccano. Nell’aria c’è qualcosa, comunque: i giovanissimi Litfiba e Diaframma, nomi di punta della new wave italiana, i padrini del dark Bauhaus, gli spaccaclassifiche Simple Minds, arrivano tutti a suonare in riva allo Stretto. Ad ascoltarli, una generazione che, ancora non lo sa, farà la storia musicale della città.

COSE DA FARE DI NOTTE NEL 1989. Il locale simbolo della movida decadente messinese è il “Joe’s Garage”, sul cui palco, a un certo punto, si alterneranno la crema del jazz italiano e la lordura hardcore. Mentre a Catania i Denovo portavano sui palchi una certa eleganza formale, a Messina proliferavano gli incubi elettronici dei Victrola, quelli dark dei Dawn Tanz, e il punk rantolante dei Convulsed. Suonare dal vivo, in quel periodo, più che difficile è impossibile, e chi si cimenta con gli strumenti non trova altro sfogo che le cantine, sia per l’esiguo numero di locali a disposizione che per le proposte musicali che, più che strizzare l’occhio all’ascoltatore, cercavano di strangolarlo e di picchiarlo. Nascerà in quel contesto il centro sociale “Fata Morgana”, nei locali dell’abbandonato istituto dermoceltico.

È in questa “teenage wasteland” che iniziano i ’90. In giro c’è, ancora ben nascosta, una generazione di adolescenti (strani, problematici, fuori dai canoni di una città intimamente conservatrice che guarda con sconcerto le prime creste, le prime borchie sui giubbotti di pelle, i primi centri sociali) che inizia ad accedere a chitarre, tamburi e amplificatori da quindicimila lire, li condivide e comincia a guardare a quello che arriva dal resto del mondo, seppure con una decina d’anni di ritardo, ma si mette al passo e rimedia con un sorprendente zelo. E i nomi testimoniano l’urgenza e l’ingenuità: Dannazione, Maelstrom, Senso Unico, Morgana, Hemicrania, Rain Dogs, Fuori Luogo, Nouvelle vague, Laughing Students, Spasm, Dies Irae, Wolframio, Psiche sotterranea, StranaMente, Kalashnikov, letteralmente infliggono dolore e sofferenza alla formalità musicale, e puntano tutto sull’aggressione e sulla frustrazione. Sono loro la prima ondata, la fanteria aviotrasportata in campo avversario e ostile.

«A MESSINA NON C’E’ NENTI». All’epoca, la possibilità di esibirsi dal vivo come dio comanda era pressoché zero, con la lodevole eccezione del “Pipa Pub” di Milazzo, traguardo di migrazioni in massa in occasione dei molti concerti che ospitava (soprattutto di band del giro Arezzo Wave, all’epoca la più importante rassegna rock in Italia): per il resto, o grandi eventi o raffinati locali jazz (genere musicale in cui Messina dettava legge), e nessuno avrebbe mai fatto salire su un palco i barbari diciassettenni con le magliette strappate e i capelli improbabili tanto quanto i nomi. E così era un fiorire di festival antimilitaristi, festival antimafia, festival per qualsiasi causa, con dentro gruppi a decine, e dei primi centri sociali: per tutti, il battesimo del fuoco.

Chi aveva perizia musicale (La famiglia Lentini con Pippo Mafali, Dino Scuderi e Alessandro Silipigni, e i King Biscuit time che suonavano jazz, Johnny Bellebambine e la scena blues, i Mass media, dal suono simil Police, e i Name Us Yourself, che al teatro in Fiera musicano il film muto “The phantom of the opera”) in genere si teneva ben distante dalla rumorosa marmaglia che, come gli Unni, premeva alle porte.

Nel frattempo, Messina che suona (bene) manda i Kunsertu in avanscoperta con l’inno generazionale “Mokarta”, e poi chiama a raccolta tutti i suoi figli e li raduna intorno al musical “Jesus Christ Superstar”, progetto nato per gioco nelle sale prova de “Le Fantasie di Calimero” e approdato al Sistina di Roma dopo esser transitato per il Vittorio Emanuele di Messina e il teatro Greco di Taormina. In un attimo, Messina non arranca più.

«C’era tanta gente che suonava bene, soprattutto fronte metal, ma in modo assolutamente scolastico, e questo era dovuto anche alla qualità degli ascolti molto classici – spiega Pietro Saitta, voce e chitarra de Le ValvolePoi c’era chi già andava alla ricerca dell’avanguardia pura, leggeva “Rockerilla”, ed ascoltava roba underground non banale e non convenzionale, stimolato spesso da amici più grandi».

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI ’90. Apparentemente sonnolenta, la città alza invece la testa e si scopre bella, talentuosa, desiderosa di farsi sentire. Ci sono i veterani, che negli anni ’80 già suonavano: i Dick Dastarbly di Paride Acacia e Massimo Pino, i veterani del garage Out Keyhole (Carmelo Gazzè e Tiziano Giunta, tra gli altri) e Fossils (che prima ancora si chiamavano Inflowers, tutti gruppi nati dalla passione collezionistica di Mario Gallo, che negli anni ’60 ci viveva praticamente immerso), i metallari Ohne Worte. Fioccano i locali notturni, ogni club (anche i più improbabili) ha il suo palco, sul quale ogni sera si alternano i musicisti locali in torride, interminabili jam sessions.

L’Otis club, di tutti, è quello che rimane nei cuori di chi lo ha vissuto: un sotterraneo sporco, umido, fumoso e male in arnese in cui ci si incontra, si beve, si sale sul palco e si imbracciano gli strumenti che il locale mette a disposizione. E via fino al mattino, a farsi le ossa macinando note al cospetto dei veterani della scena. Che approvano e si arricciano il baffo, soddisfatti. Incoraggiate dal buon numero di occasioni e di palchi, le band abbandonano le cantine ed invadono la Sicilia. «Non solo improvvisavi delle session ma avevi l’onore di suonare con grandi musicisti che ti facevano apprendere, esercitare, improvvisare e crescere. Lì potevi conoscevi tantissime persone che suonavano, ma proprio qualsiasi genere», ricorda Germano De Gregorio, che suonerà il basso e canterà nei Lilly for Gulliver. Poi si entra dritti dritti nella seconda metà anni ’90.

LA RIVINCITA DEI NERD. Lo spartiacque è l’inizio del decennio: nel 1995, i mesi trascorsi in cantina ad affinare suoni e feeling, finalmente danno i loro frutti, e uno a uno, i gruppi esplodono: dall’apparizione a Sanremo di Olivia Cinquemani (anche lei di scuola “Jesus Christ Superstar”) al grunge dei DugJive (con Ottavio Leo, Francesco Schepis e Nino Allegra), all’hardcore di Bamfa Bamfa (con Enrico “It” Caruso, Vito Rossi e Andrea Nunzio), Vapurella e Cff (di Barcellona), dal Rock’n’roll mutante degli Airwalkers (Alessio Caspanello, Domenico Rossi, Salvatore Scibilia, Pierguido Scionti), al roots rock dei Cuori Selvaggi (Christian Longobardo alla chitarra e Giuseppe Sarcella alla voce, più una miriade di batteristi, da Ettore La Rocca a Peppe Pullia), dal pop psichedelico dei Rainy Day Sponge (con Roberto Mento e Alessandro Calzavara) al funky cabaret degli Erezione Libera (con Massimo “il cane” Ammendolia, Giosuè De Domenico),  dal noise de Le Valvole (Pietro Saitta, Michele Longobardo, Roberto Calabrò e Stefano Barbagallo) all’hip hop di Nuovi Briganti (Giuseppe Paterniti, Raffaele Riberti e Fabio Cacia), e Fuori Fase (con Donatello Smeriglio e i fratelli Di Bella), fino al black metal dei Journey through the dark (i fratelli Gianluca Vecchio e Carlo Carbone, il batterista Ciccio Caliri), dai Lue alla new-new wave dei Noema e al dark teatrale dei Lilly for Gulliver (con Riccardo Mozzo e Germano De Gregorio) tutti, chi più chi meno, sono arrivati al traguardo discografico, tra lavori autografi e brani in compilation, con un effetto collaterale inaspettato: il fenomeno tutto provinciale per il quale i costumi diventano “moda” quando altrove sono già in declino, nella scena messinese è quasi del tutto assente. «Negli anni ’90, come in tutti gli anni pre internet, quando avevi 18/20 anni tendevi a far parte di subculture – racconta Ottavio Leo dei Dugjivecome i metallari o i “grungers” di turno, per crearti un’identità attraverso la musica e scolpire un po’ la tua personalità, e quindi andavi al negozio di dischi e iniziavi a comprare determinati dischi, ti vestivi in un determinato modo, e di conseguenza cercavi di costruire una rete con queste persone dato che era difficile avere contezza di molto altro, e questa rete ti dava l’occasione di suonare. C’era molta più voglia, rispetto ad ora, di avere una ben precisa identità». Impressionante anche il cambio di stile che avviene nel giro di, letteralmente, settimane. Carmelo Gazzè, uno dei “prime movers” della scena, si fa le ossa nei Convulsed, in cui mescola metal e punk, e poi sterza a 180 gradi e mette su gli Out Key Hole, garage psichedelico anni ‘60 filologico fino al midollo. Dalle stesse radici parte Giuseppe Paterniti, coi Sovversione, che qualche anno dopo approderà al rap coi Nuovi Briganti, che tra i gruppi messinesi saranno quelli dal successo più mainstream, con dischi zeppi di nomi conosciuti (Saturnino, il bassista di Jovanotti su tutti).

LA SCENA. Erano i tempi in cui aprire una sala prove era un affare, e lanciare una propria casa discografica (come fecero i Maisie inaugurando la label Snowdonia) una mossa lungimirante. In città iniziano a fiorire le sale prova. Dalla Mediterranea nei pressi di via Salandra alla Saint Louis dietro via Tommaso Cannizzaro, dalla Cargo, non troppo distante da piazza Casa Pia, alla Doctor Sound’s di Tremestieri, gli slot disponibili per suonare si iniziano a ridurre col crescere delle band, e non era raro dover prenotare con una settimana di anticipo.

Agli ingressi, la scena inizia a conoscere se stessa: una band arriva, l’altra va via, si scambiano informazioni, idee e demo su cassetta, che girano velocissimi (e usualmente finiscono la sera nello stereo del Panama, lo storico locale di via Mario Aspa in cui ogni sera era imperativo farci una tappa, nella sicurezza che qualcuno avrebbe avuto la stessa idea).

È lì che si coagula la scena. Le fantasie di Calimero in via cavalieri della Stella, di Camillo Samperi, è più che una semplice sala prove. Si suona, si registra, si mangia, si beve, ci si ritrova a ogni ora del giorno e della notte. Senza limiti generazionali, di vedute o di censo. «C’era veramente tantissima gente che suonava bene, c’erano tante piccole realtà fatte di sale prove e locali dove suonare come l’Amarcord, o il Re Artù, e punti di ritrovo come il Panama dove girava tantissima gente, dal musicista, all’ingegnere, al muratore, e si faceva rete dando vita a varie storie e collaborazioni – ricorda Camillo – C’erano tutti i “figghiulazzi” che amavano suonare, si suonava, si registrava, si stava là tutti insieme: due ore di prove costavano 25 mila lire, con 5mila lire in più avevano registrato su cassetta tutto quello che accadeva durante quell’arco di tempo”.

Da zero quali erano, i palchi per suonare dal vivo si moltiplicano: dozzine di locali (dagli scalcinati pub alle pizzerie “in”) comprano un impianto voci, due casse sufficientemente potenti, e piazzano nell’angolino una pedana. L’investimento è recuperato già al primo concerto, in genere affollato da mai meno di cento persone, che “bilanciano” l’incasso delle birre vendute con una devastazione generalizzata: ma l’affare vale la candela, e in città non passa fine settimana senza l’esibizione di dieci gruppi di più svariata estrazione, coi cadaveri ammonticchiati ai lati dei palchi e il pubblico che diventa attrazione come e più della band che suona.

Nel frattempo nasce il primo, vero rock club, il Galveston/Dixieland, di via Croce Rossa, che negli anni si trasformerà prima nel Cinque quarti e poi nel Retronouveau, chi cerca un certo tipo di musica razzia dischi (a tonnellate) da Neu, da Annie Rose, da Musicò e da Melluso, all’epoca sterminato, chi compra microfoni, strumentazione e amplificatori affolla San Filippo, Piparo e Musical center, tutt’ora esistenti, ma anche la mezza dozzina di negozi oggi chiusi, e chi ha bisogno di dare una regolata alle chitarre (o anche di farsene costruire una nuova di zecca) fa tappa nella bottega di liuteria di Salvatore Mancuso, all’epoca ”franchise” di Glass master (e oggi a Milazzo). Incredibilmente, anche i privati (Roberto Laudini in testa) e le amministrazioni comunali (Gaetano Giunta, all’epoca assessore ai Servizi sociali per primo) danno il loro contributo. La scena è raccontata dai primi graffitari che si cimentano coi muri delle aree più luride della città, dalle fanzine “Porrozine” di Dario Ursino, e le semi clandestine e mitologiche “Bay city blues” e “Not so quiet on the southern front”, due numeri stampati in pochissime copie da Alessio Caspanello e Domenico Rossi, e poi basta: a piazza Municipio appaiono i primi skaters, regolarmente in lotta con la Polizia municipale.

L’ASCESA E IL DECLINO. Il punto più alto è probabilmente l’ottobre del 1995, in cui per una settimana intera, nell’arena di villa Dante, si esibiscono una quarantina di band cittadine, esordienti o meno. Il successo insperato di pubblico, affamato di musica dal vivo, inaugura la stagione dei grandi concerti estivi, divisi a metà tra Capo Peloro e Villa Dante. Prozac+, 99 posse, Fleshtones, Subsonica, Avion Travel, Elio e le storie tese, i riformati Denovo ravvivano le notti cittadine. Come in ogni scena che si rispetti, ci sono le ibridazioni, le band imbastardite, quelle incestuose: sessanta musicisti e centoventi gruppi, chi imbracciava uno strumento lo incrociava spesso con tutti gli altri, nei più svariati contesti. Nascono i Rebel Ratz e i Cookie Monsters (di Alex “Wizo” e Cristian Perrotta), gli Oga Magoga, gli Affy Bag (di Cesare Gatto, Andrea Pollicino e Simone “Affy”) , gli Addamanera, Billy Morgue and the sunset criminals, i No buzz, i Punkarrè (con Sandro Tuccio), gli Arabian Glue (di Marcello Crispino, Roberto Rando, Dario Sciliberto e Giovanni Fleres), i Noise Pollusion, i Chilly Willy, i Vinavil (con Giampiero Neri), i Morning Sickness, che portano nuovo sangue e nuova linfa verso la fine del decennio, il primo gruppo cittadino tutto al femminile, Catfood (con Mary Costa, Annalisa Cavallaro, Natalia Laganà), i più “anziani” Oriente Siculo, Dentistretti, Alibi e Rockita continuano a calcare i palchi, e due attuali assessori (Salvatore Mondello e Enzo Caruso) si fanno le ossa nei Panta Rei e nei Truvatura. Messina inizia ad apparire sulle cartine geografiche musicali, e la crema dell’indie degli anni ’90 inizia a includere la città dello Stretto nei riders dei tour: Casino Royale, Subsonica, Bluvertigo, Marlene Kuntz, Neffa, Massimo Volume e Verdena vengono a suonare nella seconda metà del decennio, alcuni dei gruppi più attivi gli fanno da spalla (e spesso li sovrastano, facendogli mancare il palco sotto i piedi).  Ma proprio quando sembrava matura per compiere il balzo, la scena musicale implode. Le poche occasioni per saltare dal dilettantismo al professionismo fanno emigrare i più intraprendenti e gettare la spugna alla maggior parte degli altri. Sono pochi quelli che sopravvivono al decennio, mentre, già scalpitanti sotto i palchi, c’è una nuova generazione, la prima, che farà tesoro delle infinite possibilità offerte dal web in termini di contatti e networking.

Il tempo passa veloce quando ci si diverte. Cosa resta di quel pugno di anni e di ragazzi con le chitarre in mano? «L’inesauribile energia creativa, l’urgenza di esprimersi più forte degli oggettivi limiti tecnici e delle ortodossie stilistiche radicate in città» è la riflessione finale di Domenico Rossi, uno che ha letteralmente suonato in cento gruppi diversi. «Un manipolo di  ragazzi che anche se a livello inconsapevole crearono dal nulla una scena con un forte senso di appartenenza: tutti andavano ai live degli altri gruppi, le influenze erano molteplici e reciproche, si parlava, ci si scambiavano dischi e cassette e soprattutto si collaborava. Ricordo che nella stessa settimana mi poteva capitare di fare un concerto con gli Erezione Libera, suonare Hendrix con Cristian Longobardo, collaborare alla scrittura di un testo o una linea di basso per i Bamfa Bamfa oppure andare a cantare “Search and Destroy” con gli Airwalkers, prima di entrare a farne parte, o fondare i Rebel Ratz con gli stessi elementi, tre su quattro. Ogni spazio rubato o preso in prestito diventava lo scenario per un evento in cui c’erano tutti.  Uno spirito che, pur non avendo mai smesso di suonare, scrivere e registrare, non ho mai più ritrovato negli anni successivi o in altre città in cui ho vissuto».

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