Nella foto di questa pagina ci sono i festeggiamenti per il mio quarantesimo compleanno, nell’agosto del 2019. Sono partito dalla Sicilia a 40 anni ed un giorno esatti. Quando ritornerò di nuovo in Sicilia a fine luglio, compirò 43 anni dopo una settimana. Tre anni lontano da casa, dalla mia Isola. Ma quanto sono lunghi, 3 anni?
Si dice sempre: sembra ieri.
È quello che dicono i migranti che tornano a casa. Tutto resta familiare anche quando ci sono cambiamenti, tutto parla di casa, nel bene e nel male. Pochi giorni e già è come se non fossimo mai partiti, pronti a dar per scontate cose che prima ci sognavamo la notte, ad infuriarci per tutti quei difetti che avevamo rimosso. Se sogni la Sicilia lo fai a modo tuo, creandoti un’Isola che esiste solo per te, e la cui distanza resta sempre incerta.
Così, per tagliar corto diciamo: sembra ieri. Anche quando non è così.
Tre anni fa lasciavamo la mia riva, con tutti gli sguardi finali lì a osservare l’imbarco col volto mezzo rassegnato e mezzo di speranza.
Ci vediamo l’estate prossima, dicevamo.
Tornati qui in Australia avevamo disfatto le valigie, maledetto il jet-lag che non fa dormire, avevamo messo a posto foto e ricordi e cominciato a farci i conti, risparmiare sulle ferie, progettare.
Poi era arrivato il 2020 che aveva fatto saltare i conti, distrutto i progetti, reso inutili tutte le ferie.
In pandemia i fatti sembrano lontanissimi nel tempo, mischiati tra loro senza separazione o prospettiva. I lockdown si confondono, le restrizioni diventano tutte uguali.
In questi tre anni ci sono state lunghe attese claustrofobiche, notizie allarmanti, litigi sui social, strade vuote e poi piene, così piene che ormai non ci ricordiamo nemmeno più di quando erano vuote.
E nemmeno ce lo vogliamo ricordare.
Eppure io voglio ridare un senso a questi tre anni che sono passati da riva a riva.
In questi tre anni ci sono stati i primi momenti della pandemia nel 2020, le ore a guardare bollettini, a stare al telefono con famiglia e amici facendo raccomandazioni di senso comune (“Stai attento, mi raccomando”), perché nessuno sapeva bene cosa fare e come farlo.
Ci sono state le città silenziose, il Papa a muoversi per la Via del Corso deserta, in una casa lontana da casa che non riconoscevamo più.
In questi tre anni ci sono stati gli interventi del venerdì del Primo Ministro australiano, in particolare quello in cui aveva annunciato che i confini australiani sarebbero stati chiusi in uscita a tempo indefinito.
Da quel momento avevamo smesso di seguire gli interventi australiani, le news italiane, restando ad osservare quelle stagioni assurde rotolare fuori dalla finestra.
In questi tre anni abbiamo sperimentato una sensazione del tutto inedita per il mondo occidentale: quella di non poter lasciare il proprio Paese.
In questi tre anni ci hanno detto che non saremmo potuti tornare a casa per nessun motivo, nemmeno grave.
Lì sono cominciati i sogni in mezzo ai nostri sonni disturbati, mangiucchiati.
Sognavamo gli amici, sognavamo i genitori, sognavamo un pranzo a casa sapendo che ce l’avevamo fatta.
Sognavamo, una lunga notte dietro l’altra.
In questi tre anni ci siamo trovati spesso a sedere su questa riva, cercando di indovinare l’altra al di là del mare.
Seduti sulla banchina, nell’ora d’aria tra un lockdown e l’altro, ci dicevamo “Ti immagini come sarà, quando potremo tornare?”.
Era una fantasia che ci passavamo tra le mani, timorosi che si potesse spegnere all’improvviso.
Ad ogni prolungamento del divieto di partire, ripensavamo alle parole di De Andrè nella sua “Da me riva”, canzone impregnata di nostalgia su un marinaio che lascia la sua Genova e ripensa alla sua casa, alla sua donna, alla sua città:
Mi perdonerai il magone
ma ti penso controsole
e so bene che stai guardando il mare
un po’ più al largo del dolore
In questi tre anni ci siamo trovati qui a Sydney ad inseguire la chimera della quota zero casi, per poi esplodere nel lockdown più imprevisto e più beffardo, quando l’estate 2021 arrivava in Italia e noi sapevamo che avremmo perso anche quella.
Sulle nostre schiene già provate abbiamo aggiunto la finale degli Europei vista in casa da isolati, il coprifuoco alle 21, le mille regole a pioverci addosso nel gelo dell’inverno australiano.
Sono tornati i sogni masticati la notte, a parlarci di odore di sale e braccia dentro cui poter restare.
In quei momenti i tuoi ricordi diventano luminosi come mai nella realtà. Piazzati davanti ai tuoi occhi li puoi sentire, toccare, puoi percorrere quelle strade, risentire gli odori, in un’imboscata emotiva che ti lascia sconquassato a fare i conti con ore gocciolanti e panorami immobili.
Messina e Orto Liuzzo ci arrivavano addosso con violenza, alimentando nostalgia per particolari minimi, inezie a cui nemmeno avremmo badato, creando miti e leggende che ci passavamo di bocca, quando ci ripetevamo ancora una volta, “Ti immagini come sarà?”.
In questi tre anni siamo stati con l’orecchio appeso al cuore, ascoltando le nostre famiglie dall’altra parte del mare.
Abbiamo sperato, incrociato le dita.
In questi tre anni ci siamo trovati al telefono con loro a farci i conti per il ritorno, a immaginare quel momento all’aeroporto. A guardare su YouTube i video di chi era tornato a riabbracciarsi, aspettando che fosse il nostro turno.
In questi tre anni di Natali e compleanni persi, di carezze su Skype e lunghe discussioni su WhatsApp, abbiamo capito ancora di più perché il sangue torna sempre verso il cuore, per poter poi fare un altro giro e ritornare.
In questi tre anni ci sono stati cambiamenti importanti, notizie da grandi, promozioni, elezioni, traslochi, belle notizie festeggiate col prosecco sul balcone. Ci sono stati bei tramonti infuocati e brevi istanti di mare strappati al flusso delle giornate.
In questi tre anni l’Australia è prima andata a fuoco e poi si è allagata ripetutamente, tutto mentre si scopriva più egoista e rigida di quanto avremmo sperato.
In questi tre anni mi sono perso un matrimonio di quelli che non avrei mai voluto mancare. Mi sono perso trasferimenti, promozioni, festeggiamenti, bevute al pub.
Una delle mie amiche più care non era nemmeno incinta quando sono partito. Ora che torno, sua figlia già mi potrà parlare.
Questi sono i tre anni.
Altro che “sembra ieri”.
Questi tre anni da riva a riva ci hanno portato il sorriso e messo alla prova, ci hanno eroso come il mare che giorno dopo giorno cambia il panorama senza farsi notare.
Ma lo fa, in modo silenzioso ed inesorabile.
Questi tre anni lontani sono stati difficili, intensi. Ci hanno cambiato, noi e voi, e non poteva essere altrimenti.
Eppure ricordare cosa c’è stato dentro non è solo per un elenco di lastime, per rimettere il dito sulla ferita ancora aperta. So bene che per tanti è ancora uno shock, un trauma, un brutto ricordo da scordare in fondo all’armadio -e direi che non fa una piega. Me prenderne consapevolezza, col tempo, credo sia la cosa più giusta da fare.
Ricordare cos’è stato per apprezzare quel che c’è, e capire meglio cosa ci sarà.
Usare il dolore piuttosto che venirne usati.
Sentire il sole addosso, e sapere che ce lo siamo maledettamente meritato.
Per questa stessa ragione ho voluto ricordare questi tre anni proprio adesso che sto finalmente per fare le valigie, per tornare con i miei 40 anni che non sono più 40.
E per carità, è bello che ancora “sembra ieri” che siamo partiti, sapere che casa resta casa al di là di ogni separazione.
Ma anche ricordare che non è stato ieri, mi serve.
Tutto quel che c’è stato in questi tre anni darà un peso ed un valore ad ogni passo, ad ogni respiro. Ad ogni abbraccio.
Ogni tramonto, ogni pranzo.
Ricominciare dal presente, apprezzarlo anche nei suoi cambiamenti portati dal vento e dal mare. Tirare fuori le emozioni messe sotto chiave in mezzo a tutte le clausure, perché tra un poco, tra qualche settimana, tra qualche ora, non dovremo più immaginarci come sarà.
Tra poco lo sapremo.
La notte è quasi finita.
Ci si rivede all’alba a Catania.
Portate da mangiare.
Marco Zangari
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