Prima delle mascherine, dei Green Pass, dei lockdown, prima dei blocchi dei voli tra Australia e Italia, prima del non poter tornare a casa per due anni, ho avuto la fortuna di poter girare l’Isola in una della mie pause latinoaustraliane.

Avevo fatto un viaggio simile in occasione del mio trentesimo compleanno. Ritornavo sulla strada ora, nell’estate dei miei quaranta, ed era il posto perfetto.

Perché solo quando ne stai lontano, a volte, apprezzi e riconosci pregi e difetti di casa tua.

Perché solo quando ne stai lontano, capisci che casa è sempre lì.

Ad aspettare.

Questo è il mio diario di quel viaggio.

 

Il Grand Hotel ci accoglie a Siracusa alla fine della strada, tra caldo, umido, tempesta e vento sottosopra, nell’aria elettrica di pensieri, scadenze e parole non dette che schizzano veloci sull’asfalto bagnato insieme a noi, all’auto piena di bagagli, e ai miei trent’anni legati sul tettuccio della vettura.

Arriviamo a questo hotel che sembra un nobile decaduto di una Sicilia che non esiste più, fuoriluogo e ancora pieno di dignità, ostinato a mostrarti la bellezza che tutti vogliono farti credere estinta.

Scalinate, sale con poltrone in pelle e raso rosso, caminetti, classe senza ostentazione, e perfino un belvedere con panchine e panorama sulle cave di tufo, dove puoi immaginare una delle donne pirandelliane a farsi rubare l’amore o a negarlo per sempre.

Quando scopriamo che qui ci ha dormito anche Churchill, rientra quella Storia nobile e decaduta allo stesso tempo, demodè, quegli eventi che hanno cambiato il corso dell’Italia in un modo che solo noi ricordiamo, e preferiamo dimenticare.

Ti ricordi di quella Sicilia, alleati e nemici, fazioni a scannarsi su uno sfondo da cartolina, la nostra storia che diventava la loro, e alla fine per terra restava sangue, distruzione, confini confusi, e l’ultima nobiltà del tenersi per sé il proprio dolore e piangersi i propri morti.

E adesso ci troviamo in un hotel maestoso, dove noi siamo gli unici siciliani -se non italiani- e capiamo che da qualche parte la fortuna ha cambiato di mano e possiamo solo assaggiare una granita alle mandorle e stupirci della bontà di questa terra.

Nonostante tutto.

 

Ortigia me la ricordavo un folle crogiolo bollente da darti le allucinazioni. Anni dopo la ritrovo tra nuvole e pioggia, e benedico il cielo per questo.

Per dire, come si invecchia.

Le piccole cose.

E Ortigia è piccola, una sorta di Bignami delle bellezze tradizionali sicule: il porticciolo, i vicoli senza fiato con perenne odore di cene, le case sgarrupate e le ville da restarci, gli yacht da 15 metri e i mercatini di pesce, i ristoranti della tradizione e quelli turistici a menù fisso, e poi il cielo che si apre sulla bellezza di piazza Duomo, della fontana di Diana, o sulle rovine del tempio di Apollo che, piazzate tra negozi Apple e ristoranti che servono arancini senza glutine, ti ricordano che un millennio e mezzo fa quest’isolotto racchiudeva potere, cultura e scienza da farlo competere con Atene.

Quel che resta è una gemma siciliana circondata dal mare e carezzata (e spesso tormentata) dal sole, che ha reso dolci e tranquille ombre i suoi abitanti, sempre disposti ad aiutare (la signora che si ferma al parcheggio Talete per aiutarci, il ragazzo col monopattino che ci dice “Mangia là che è buono” in dialetto), una sorta di tranquilla bontà schiacciata tra un potere passato e un presente che sono riusciti a ricostruire.

Il cinismo delle grandi città siciliane non li ha raggiunti -non ancora, non del tutto- e ti fa sentire subito a casa, che poi ti dispiace dovertene andare.

 

Il Santuario della Madonna delle Lacrime e la sua colata di cemento che si innalza nel cielo, sotto la pioggia, a perdersi tra il grigio delle nuvole, mentre dentro i pellegrini pregano per un miracolo che deve ancora arrivare.

L’esitazione delle cameriere in trattoria, il sorriso pieno, il loro accento quasi catanese.

La mattina dopo ci sono i tedeschi in piscina già all’alba, tutti contenti sotto il cielo color medicinale. Dal menù dell’hotel hanno tolto le linguine al dentice per la pioggia, a ricordarci che qui dipendiamo sempre dal tempo, dalle maree, dai venti, da quel che il cielo vuol farne di quest’Isola immersa nel fatalismo.

Il personale impeccabile dell’hotel, come una bella novità in questo viaggio. La colazione al buffet, dove si trova anche dello champagne in ghiaccio, opzioni infinite, e che rimpiangeremo al prossimo autogrill.

 

Agrigento mi lascia la stessa sensazione della prima volta – cioè una delle tante località siciliane divisa tra la zone turistica e quella viva, abitata, pulsante. Questa frattura si avverte particolarmente qui, in una città carica di storia e di cultura, dai templi alla casa di Pirandello, una leggendaria Girgenti che, se non potente come Siracusa o famosa come Catania, ha comunque detto la sua: dall’altra parte una cittadina arrampicata su colline che si “sdirupano” sul mare, fatta di palazzine gialle e arancioni impossibili da osservare ad occhio nudo nella calura abbagliante della valle sotto, che si stende sulla pigra, lunga spiaggia di Porto Empedocle.

Una città che sembra solo una versione moderna – e nemmeno troppo – dei villaggetti poveri e rustici delle novelle di Pirandello. E sembra difficile anche immaginarlo tra le salite polverose e le strade spaccate e gli edifici abbandonati vicino al porto, ma poi ti dici che, in fondo, è proprio da qui che sono nate le sue storie.

L’arte siciliana che trae la sua ispirazione dal nostro costante dolore, e cerca in qualche modo, se non di consolarlo, quantomeno di riderci sopra per quanto possibile.

Fantasmi a forma di Liolà, Ciaula, Mattia Pascal in tutta Agrigento.

Per una volta, mi sembra sacrosanto che si ricordi tanto un “concittadino illustre” (e lui ovviamente riderebbe di questa definizione).

 

La Valle dei Templi illuminata nella notte scura di Girgenti, come a ricordare ancora una volta il contrasto tra quello che è stato e quello che non riesce più ad essere.

(e i miei 40 anni dove li metto, qui in mezzo?).

 

Il fantasma di Pirandello ci lascia mentre ci addentriamo verso Trapani, e il panorama da brullo e bruciato dal sole diventa verde e rigoglioso – come quello dei personaggi facoltosi delle sue novelle, che spesso riflettono la nostra peggiore umanità, si fanno umiliare ma ne escono vincitori perché, in un mondo che parlava di fame, miserie, raccolti e carestie, loro erano il dio della Sicilia, ponendosi sempre un po’ più su degli isolani “umiliati e offesi” alla Dostoevskji, ignoranti e fieri di esserlo finchè il dio ricco passava loro qualche briciola, dava qualche carezza.

Rispetto al cuore rosso dell’Isola, tra Enna e Caltanissetta, arso dal sole, questa zona è verde, brillante, costeggiata di uliveti, agrumeti e vigneti poggiati dolcemente su colline a tuffo sul mare, e riempie il cuore.

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