Venerdì scorso sono stato invitato a una puntata di Scirocco, condotta da Emilio Pintaldi su Rtp, dedicata per buona parte al tema delle baracche. Tra gli ospiti vi erano molti dei protagonisti istituzionali di quel processo politico che mira all’emanazione di una legge speciale sullo sbaraccamento, all’ottenimento di fondi straordinari e alla nomina di un commissario. Dall’onorevole Matilde Siracusano al presidente dell’Agenzia comunale per il risanamento Marcello Scurria. Proprio quest’ultimo, peraltro, mi ha interrotto nel mezzo di un ragionamento che – nella mia prospettiva di studioso dei disastri – metteva in discussione la nozione di emergenza impiegata con una certa imprecisione nel dibattito politico locale e, di riflesso, nel discorso comune. 

Ciò che provavo a spiegare all’avvocato Scurria e agli altri ospiti è che, dal punto di vista di un tecnico dei disastri, l’emergenza è un fenomeno improvviso e inatteso che irrompe nella vita di una comunità sospendendone l’ordinario fluire. Nel corso di una emergenza, ossia del dispiegarsi di un evento inatteso, sezioni più o meno numerose di una popolazione si ritrovano esposte a una o a più minacce riguardanti la propria sicurezza e, pertanto, vulnerabili all’evento stesso. Ossia prive di strumenti di ordine materiale, sanitario e relazionale atti a contrastare gli effetti del fenomeno abbattutosi inaspettatamente su di esse. Va da sé, infine, che un terremoto, un’epidemia oppure la scoperta di tassi relativi all’esposizione ambientale a sostanze inquinanti sono tutti esempi plausibili di eventi indesiderati che generano risposte particolari, implicano temporalità differenti e significati specifici.   

Ciò che provavo a spiegare nel corso della trasmissione è che se si dà per buona questa definizione sintetica, è arduo ritenere che quella delle baracche messinesi sia un’emergenza. In un ottica storica e sociologica, il fenomeno è infatti vecchio almeno tanto quanto la Repubblica e, pertanto, strutturato. Non è dunque inatteso, non implica vulnerabilità insospettate e, soprattutto, è esso stesso il risultato adattativo a un’altra crisi: quella dell’abitare. Si definisce cioè come emergenza quella che è la conseguenza non di un evento improvviso, ma di una decisione politica che è consistita nel progressivo disinvestimento sull’edilizia popolare. Inoltre, al contrario di quello che suggerisce l’“eccezionalismo” localista, nel quadro italiano contemporaneo le baracche non sono una unicità messinese, così come spiegano l’Istat, ma anche un documentario, Baraccopolis, incentrato su Messina così come su Lamezia, Foggia, Brescia. E si noti che all’appello mancano Roma e una infinità di centri rurali, situati anche nel nord del paese, su cui esiste un’ampia letteratura specializzata. 

 Nel corso della puntata di Scirocco, l’assessora Carlotta Previti ha spiegato che questa definizione tecnicamente improvvida di emergenza deriva da una scelta del sindaco Cateno De Luca di affrontare di petto una questione cronica (ai fini, come lui stesso spiegò agli inizi della vicenda, di mostrare la propria efficienza alla città e all’Italia e potere così dimostrare di avere quei requisiti di leadership necessari per potere governare in futuro la Regione Sicilia). Appena insediatosi, infatti, le ingiunse di trovare immediatamente dei fondi necessari ad affrontare la questione.

Nel corso del dibattito – poco prima di una fastidiosa interruzione consistita nell’apostrofarmi come “filosofo”, ossia soggetto astratto ed estraneo al reale – stavo dunque provando a spiegare che l’insieme dei discorsi ascoltati in trasmissione, così come quelli proposti in Parlamento, mostrano alcuni elementi tipici della contemporaneità. Sono in particolare discorsi incentrati su una cornice emotiva e su tre paradigmi della politica contemporanea che ruotano attorno alle nozioni di shock, accelerazione e indifferenziazione.

Ciò che De Luca e la sua giunta fanno consiste nel costruire una situazione in termini emotivi, che ruotano attorno alla sorpresa e allo sdegno. Il tentativo – un po’ tardivo se si considera come punto di avvio della questione baracche il terremoto del 1908, il Fascismo oppure l’affermarsi dell’egemonia democristiana nel dopoguerra; ossia un arco temporale che varia tra i centodieci e i settant’anni – è dunque quello di generare stupore, senso di emergenza-urgenza e, pertanto, di mettere in moto un’economia adeguata. Lo shock, nei termini classici di Naomi Klein (si veda per esempio: Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli), è esattamente l’impiego di eventi indesiderati al fine di generare un’economia supplementare e fuori dall’ordinario (“speciale”, proprio come la legge ricercata dai protagonisti della vicenda).

Venendo così alla fase successiva, dentro questo contesto semantico ed economico le risposte istituzionali devono apparire veloci. Occorre che gli eventi vengano posti all’opinione pubblica come se si svolgessero in rapida, inattesa e disarmante successione (ciò che fa di De Luca, ossia del “tragediatore” per eccellenza, un maestro indiscusso). È a partire da qui che deve emergere il bisogno sociale di individuare procedure e personalità capaci di aggirare le storture burocratiche, prendere rapidamente le decisioni in deroga alle normali procedure amministrative e, pertanto, conseguire gli obiettivi individuati in fretta e furia. Questa, va da sé, è la fase dell’accelerazione. La stessa che implica la creazione di uno “stato di eccezione”, ossia, nei termini di Karl Schmitt e di Giorgio Agamben, di una «dittatura commissaria» atta a difendere l’ordine vigente attraverso la deroga alla norma (potremmo dire il diritto in tempi di guerra, oppure di terremoti). 

Il terzo elemento paradigmatico è quello dell’indifferenziazione. Una coltre cala sulla situazione e questa viene momentaneamente ritratta come priva di elementi di distinzione (sottolineo l’avverbio “momentaneamente” perché, di solito, le distinzioni intervengono in fasi successive. Ma dato il contesto mi limito a questa prima sub-fase). Restando così al nostro caso, le baracche diventano così semplicemente baracche, senza alcuna cura per gli elementi e le particolarità che le rendono differenti le une dalle altre.

Queste fasi, come si diceva, si realizzano dentro una cornice discorsiva che agita – a mio avviso irresponsabilmente – una serie di temi volti a creare un clima emotivo e a intervenire sul senso comune. In questo quadro la malattia è la risorsa discorsiva più ovvia. De Luca ha invocato la leishmaniosi che lo avrebbe colpito nelle baracche e parlato di queste ultime come di “lebbrosari”. Ugualmente, le malattie polmonari sono spesso menzionate e i più tecnocratici nello staff del sindaco hanno spesso fatto riferimento a un paragrafetto contenuto in un rapporto del progetto Capacity secondo cui nelle baracche si muore 7 anni prima che nel resto della città.

Dal punto di vista del tecnico del disastro questa cornice appare come un abominio perché gioca pericolosamente con uno dei temi più importanti del presente: quello della comunicazione del rischio (si vedano, tra i tanti, gli scritti di Ulrich Beck, Bruna De Marchi e Luigi Pellizzoni sul punto). Com’è banale a dirsi, una comunicazione errata genera angoscia nella popolazione, stigmi nei confronti di gruppi particolari e comportamenti lesivi della coesione e del funzionamento sociale (quella dell’ultima influenza “cinese” è un ottimo e attuale esempio). Una comunicazione sanitaria dovrebbe basarsi su dati comprovati e verificati. Su dati, cioè, prodotti da agenzie istituzionali apposite (Ministero della salute, aziende sanitarie etc.) oppure pubblicati su riviste scientifiche che abbiano sottoposto le analisi alla verifica di valutatori esperti (riviste, per esempio, come “Epidemiologia e Prevenzione” o altre ugualmente tecniche e affidabili dal punto di vista della verifica). Altrimenti questi stessi dati sono niente più che piste, che devono servire da spunto per approfondimenti istituzionali. Ma giammai per dire niente di definitivo su un fenomeno, oppure per giustificare azioni politiche. Tanto più che la salute è una condizione multifattoriale, di cui raramente partecipa un’unica variabile.

Per esempio, la famosa differenza nella mortalità (di 7 anni) cosa misura se non un gap comune al resto della Sicilia con riferimento ai gruppi svantaggiati, come ci dice l’Analisi del contesto demografico e profilo di salute della popolazione siciliana del Dicembre 2019? Cosa ci dice quel gap, se riferito alle baracche? Che è lì che si concentrano la povertà assoluta, il mancato accesso alle cure e alla prevenzione? E che dire del fatto che, come mostro in un mio libro sulla  questione abitativa a Messina, intitolato per l’appunto Prendere le case, gli abitanti delle case popolari “fantasma” di Zafferia al centro della mia indagine mostravano esattamente le stesse malattie polmonari e le stesse condizioni ambientali  di chi abita in baracca (muffa, umidità etc.), senza peraltro essere necessariamente transitato da queste? Spesso con un sovrappiù di difficoltà, per lo meno per i nuclei familiari con disabili, determinato dall’avaria cronaca degli ascensori? 

Ciò inoltre che avrei voluto dire all’avvocato Scurria, agli ospiti e ai telespettatori, è che questo insieme di discorsi non solo generano paure e angosce, ma mettono in moto anche aspettative e forme di competizione tutt’altro che necessarie. Se si prende per buono il punto relativo all’indifferenzazione si scopre infatti che quelle che per le istituzioni sono indistintamente baracche, per altri sono in alcuni casi case. È questa la condizione di chi ha investito sulla propria “baracca” elevandone la qualità e autoproducendo il proprio spazio di vita. Perché queste situazioni – che non sono poche – dovrebbero essere trattate indistintamente? Perché anche questa parte di popolazione dovrebbe andare a ingrossare la questione abitativa, pur avendo provveduto da sé ai propri bisogni? Dopo tutto, a Rio alcuni quartieri di baracche sono diventati patrimonio dell’umanità. E basterebbe leggere un classico scontato come Housing by the People di John Turner per sapere che la gente sa anche fare da sé e che questo loro lavoro va rispettato.

Invece ciò che si è fatto dire anche a queste persone – e non solo dunque a quelle che vivono in condizioni disperate – che le loro non erano case. Che la loro lotta per la normalità e la creazione di un ambiente domestico non meritava alcun rispetto. Che restando lì sarebbero stati da meno che i loro vicini, transitati finalmente in una casa rispettabile. Una casa, peraltro, che sarà economicamente garantita loro per un pugno di anni. “Intanto prendetevi questa sistemazione”, diceva ieri Scurria. E domani, magari, andate a riempire la massa di inquilini morosi dell’edilizia popolare o di quella privata, aggiungendo la vostra questione a quella nuova che nel frattempo si sarà riprodotta…

Ecco, che quello che avrei voluto chiedere a De Luca e Scurria e agli altri protagonisti, è: siete sicuri che il vostro protagonismo politico, ossia la vostra determinazione a lasciare una traccia di voi, valga la pena di questa effervescenza sociale che appare già caratterizzata da competizione, sconforto e tutto quello di cui una città non ha alcun bisogno (come le manifestazioni che hanno accompagnato la recente visita di Gelmini avrebbero dovuto suggerirvi)? È dell’eccezione che Messina ha bisogno o, piuttosto, di una programmazione che non pretenda di risolvere questioni complesse in cinque minuti, ma ponga invece le condizioni per una gestione sistematica e strutturale della questione abitativa? Una gestione che prevenga non solo le storture di oggi, ma anche quelle a venire?

E se tutta questa è – come direbbe qualche praticone – semplicemente “filosofia”, beh, pazienza: senz’altro lo è. E non farebbe male che la praticassero finalmente anche altri. 

 

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