Sarà il coronavirus, sarà l’abbuttamento del cambio stagione… Fatto sta che non ho alcuna voglia di occuparmi di cose messinesi, italiane, europee, planetarie. Che il mondo per un po’ continui ad andare per il suo verso senza che io ne debba sproloquiarci sopra!
Ieri, potenza e miracolo della memoria (ah, Sant’Agostino!), mentre facevo qualcosa in casa mi è improvvisamente e senza preavviso ritornato in mente un episodio dell’infanzia.
Dunque, mi trovo a Pettineo. Mia madre, che fa la maestra elementare, è stata trasferita in questo paese. Noi abitiamo a Messina, ma dovendo indicare una sede la mamma ha preferito questo estremo lembo di provincia perché, originaria di Castel di Tusa, spera di trovare là o nei dintorni una scuola che le consenta di gestirmi, dato che mio padre lavora ad Augusta, alla Rasiom di Moratti, e rientra a casa il fine settimana. Io ho otto anni, quindi stiamo parlando del 1960. Con mamma alloggiamo presso una zia, come una seconda madre per me, che ci ospita appunto a Pitinìa.
Che anno fantastico! Una volta finita la scuola e fatti i pochi compiti c’è tutto un pomeriggio che si spalanca dinanzi. Siamo una piccola banda di quattro, cinque picciuttieddi, che se ne vanno a zonzo campagne campagne a tirare pietre agli uccelli, sgraffignare grappoli di uva dai vigneti, catturare le lucertole. Scoprire il mondo insomma.
Da quei miei compagni, alcuni dei quali autoctoni, imparo presto tante cose. Come ci si muove – io mingherlino bambinetto di città – tra gli arbusti e i dirupi, come ci si arrampica sugli alberi, come non aver paura degli animali in cui ci si imbatte, cavalli cani vacche maiali, e anche cacciatori urdunàra carbonai porcari …., come insomma trasformare quella iniziale ingens sylva in un luogo domestico, appaesato, in cui muoversi con sicurezza e fierezza sentendosi un cow boy o un giovane esploratore.
Il ricordo che ieri appunto mi ha sorpreso come un ladro allampo è quello legato a un piccolo rituale appreso dai miei picciottazzi di avventura. Quando, dopo una pioggia autunnale o primaverile, ci imbattevamo nei crastùna, quei grossi lumaconi che dopo una scaricata proliferano in gran numero, per indurli a uscire fuori dal loro guscio utilizzavamo una sorta di cantilena-formula magica che faceva così:
“Rapi li corna ca veni to pa’ e to ma’, rapi li corna ca veni to pa’ e to ma’…..”
e così via, iterando la formula incantatoria fin quando il lumacone, probabilmente infastidito dal fatto che gli stavamo scassando i cabbasisi, si decideva a tirare fuori il viscido corpo alla cui sommità iniziavano a ergersi i due cornicini retrattili, rendendoci in tal modo avvertiti che l’incantamento era andato a buon fine.
Il vero incantamento, in realtà, è consistito nello scoprire in quel meraviglioso anno scolastico l’esistenza dell’universo agropastorale e contadino, un universo governato da codici che quelle scorribande extra moenia mi hanno consentito pian piano di introiettare rendendomi sempre più capace di decriptarne la grammatica e la sintassi, fino a sentirmene in qualche modo facente parte.
Quella scoperta, quella conquista non mi hanno da allora più lasciato, e le mie storie professionali si sono in qualche modo, teleologicamente, intrecciate con il mondo dei pastori e dei contadini, facendo sì che finissi col riconoscere in quei territori una sorta di seconda patria.
Da ciò me ne è derivata la gioia che sempre si rinnova allorquando torno a percorrere quei sentieri, sentendomi al centro del mio mondo, nonostante la loro identità si sia in gran parte opacizzata, essendo da quelle plaghe scomparse, come Pasolini ci ha insegnato, tutte le lucciole.
È forse questo il destino di ognuno, quello di dover cercare tutta la vita, in aggiunta alla casa natale, una casa sognata in cui poter organizzare simbolicamente le proprie visioni del mondo senza mai sentirsi un paria, un estraneo.
Io ho avuto la fortuna di fare assai presto tale incontro, compiendo un viaggio che è stato al contempo dall’infanzia all’adolescenza e dalla città alla campagna. Un viaggio etnografico, a suo modo.
“Il viaggio etnografico si colloca nel quadro dell’umanesimo moderno come il rovesciamento totale del viaggio mitico nell’al di là che maghi, sciamani, iniziandi e mistici di tutte le civiltà religiose compiono per recuperare in questo oltre elettivo lo smarrirsi della presenza nei momenti critici del divenire storico: nel viaggio etnografico non si tratta di abbandonare il mondo dal quale ci sentiamo respinti e di riguadagnarlo attraverso la mediazione di una rigenerazione mitica variamente configurata, ma semplicemente si tratta di una presa di coscienza di certi limiti umanistici della propria civiltà”.
(Ernesto de Martino, La terra del rimorso, 1961)
Anch’io da questo viaggio, dapprima in modo blando ma via via che crescevo sempre più fortemente, ho preso coscienza dei limiti umanistici della mia propria civiltà.
La medesima, povera, civiltà che in questo frangente ci costringe tutti a rimanere chiusi in casa, controllati a vista (i meno avvertiti) dai televisori.
Foto in copertina di Francesco Torrisi, tratta da questo link