Questa città ha bisogno di attuare dei progetti, il verbo progettare lo deriviamo dal latino pro iacere nella sua etimologia di “gettare in avanti” quindi progettare non è un’attività finita, significa “vedere prima” in attesa della realizzazione concreta. Questa città proprio per la sua condizione di crisi ha più che mai bisogno di atti concreti e anche di vedere costruite delle nuove architetture contemporanee, soprattutto se queste provengono da progetti con un lungo iter e da procedure di concorso per il controllo e la selezione della qualità. La contemplazione dell’esistente e il fermo immagine sono spesso dei ripari che ci tengono in una bolla dove più che la storia, si rispetta un simulacro di frammenti storici sospinti a galleggiare dall’emotività e dalle suggestioni alimentate dai like dei social.

In questi giorni di ruspe e demolizioni alla ex Fiera ne ho sentite e lette di tutti i colori, ho registrato sinceri dolori per la conferma di una storia che finiva con l’atto estremo della demolizione, ma anche la sorpresa e la meraviglia di svagati cittadini di Marte a cui tutte le decisioni prese sul pianeta Terra, seppure articolate nel tempo e valutate da altri soggetti pubblici, sembrano improvvise e fulminanti. Ho osservato la simbolizzazione e l’aderenza organica tra le storie di vita adolescenziali, artistico-professionali, musicali, coreutiche e quella dura, prismatica, stereometrica, strutturale di un manufatto edilizio abbastanza ordinario, che ha svolto il suo ruolo con varie trasfigurazioni della sua immagine fin dal 1938 e che oggi nel 2021 cade giù annunciandone la nascita di un altro.

Le polveri controllate delle demolizioni del calcestruzzo si mescolano animisticamente con le azioni politiche delle stagioni del recente passato, le biografie personali tante volte ripiegate come un foglietto di carta in tasca, si tirano fuori ancora più sciupate. Io credo che chi conosce la storia urbana e civile di questa città, quei foglietti deve avere il coraggio di ridisegnarli su carta nuova anche con le tracce antiche per riscriverli con dei punti e a capo. Riscrivere correggendo, sbagliando, riformulando ma anche usando nuove lingue e nuovi alfabeti in un tempo che vola ma che qui più che altrove è schiacciato sul presente e su un passato in decomposizione. Proprio qui ed ora c’è bisogno di formare e consegnare tracce visibili con cui ricostruire nuova vita civile e nuova urbanità.

Mentre leggevo le prese di posizione o ascoltavo amici e conoscenti mi risuonava dentro un battito di dissenso verso le contestazioni, ma anche un fremito di speranza per quella polvere che si alzava e ricadeva al suolo con un annuncio di una nuova architettura per la città; sarà che io mi sono formato per costruire lo spazio, trasformare, migliorare, modificare l’immagine della città, e so anche riconoscere quando fermarsi e esimersi dalle nuove costruzioni.

Lo so che siamo in una fase di eccedenza di opinioni e quindi ci ho pensato tanto prima di scrivere ma meglio interrogarsi pubblicamente piuttosto che accomodarsi nel non detto o nella polemica privata.

In questi giorni osservando la cronaca della demolizione mi sono ricordato della frase con cui il visionario architetto Louis I. Kahn apriva le sue conferenze in giro per il mondo:

«Amo gli inizi. Per me sono sempre stati fonte di meraviglia. Ritengo l’inizio fondamento del continuare. Se così non fosse, niente potrebbe esistere, nulla esisterebbe». La frase riferita al metodo è anche applicabile al tema della costruzione.

Cosi come in ogni inizio, distinguiamo una fase fondativa quando la città si genera in territori liberi; o espansiva quando la città si gemma impiantando edifici e consumando nuovo suolo. Ma c’è anche un inizio ri-fondativo in cui la pratica del costruire nel costruito non consuma nuovo suolo, non implementa volumetrie ma sostituisce alcune parti. Per fare questo occorre utilizzare la pratica della demolizione che è pratica tanto antica quanto quella dell’edificazione.

Sigmund Freud nel suo Il disagio della civiltà facendo un ardito paragone tra sistema psichico e sistema urbano dice: lo sviluppo più pacifico di ogni città implica delle demolizioni e la sostituzione di varie costruzioni… Oppure direi io secondo una formulazione più radicale:-tutte le culture e tutte le società si sono costituite e sviluppate demolendo. La demolizione è una necessità storica.

Perché dunque quelle ruspe provocano reazioni negative? Perché si ha paura di una nuova architettura?

Eppure la nuova costruzione non consumerà nuovo suolo, non sarà più alta dell’esistente, si insedierà in un luogo già costruito, migliorerà l’immagine urbana sia dal punto di vista percettivo che da quello dell’utilizzazione. Potrà avere una valenza pubblica non solo per le funzioni che conterrà ma perché gli edifici anche quando hanno una utilizzazione privata o semipubblica appartengono allo spazio pubblico, dialogano con i nostri sguardi e i nostri transiti nella città.

La nuova costruzione non sostituisce funzioni pubbliche con funzioni private ma mescola usi di rappresentanza di un ente di diritto pubblico con funzioni aperte al pubblico. In qualche modo riproduce la stessa storia precedente, quella che accoglieva gli uffici dell’ente fiera, lo spazio espositivo e la saletta del teatro in Fiera.

La nuova costruzione non è necessariamente il bottino di un famelico speculatore edilizio che sottrae beni alla cittadinanza, ma è il risultato di un processo concorsuale e fa parte della riqualificazione di quel vasto patrimonio rientrato nelle perimetrazioni delle aree demaniali prossime alle aree portuali e assegnate alle Autorità Portuali. Le Autorità Portuali sono organismi che si configurano come enti di diritto pubblico con autonomia di bilancio e istituiti con la legge dello stato n.84 del 1994.

Tutte le città portuali di una qualche importanza hanno ceduto alcune parti di titolarità alle varie Autorità Portuali e con queste hanno intessuto relazioni e conflitti per infrastrutturazioni, disegno urbano e strategie economiche e lo hanno fatto attraverso la contrattazione, la condivisione, le sperimentazioni. Detto questo chi contratta meglio consegue risultati più avanzati.

Chi ha deciso dunque? Ha deciso chi aveva titolarità e lo ha fatto attraverso un lungo processo che ha avuto occasioni pubbliche di confronto e attraverso un iter procedurale che ha utilizzato le strumentazioni di piano, di concorso e di evidenza pubblica, sottoponendo i risultati agli organismi di controllo delle varie istituzioni statali, regionali, comunali.

Ora che è caduto il parallelepipedo grigio qualcuno reclama l’azzurro del mare e non vuole più muri di cemento sostenendo che se proprio era necessario demolire adesso non bisogna più costruire. Sembra che lì proprio lì, quell’angolo solido tra il viale della Libertà e la passeggiata a mare attui la negazione del mare!

Potrei passare giornate ad argomentare e spiegare la differenza tra le istanze orizzontali della popolazione e dei gruppi di interesse e le proposte di soluzione e progettazione che invece appartengono a saperi disciplinari specifici che hanno il compito di comporre lo spazio urbano, di usare i segni e i linguaggi, di bilanciare i vuoti nella relazione con i pieni della città.

L’aria che tira è che tutti parlano di tutto, stanno sulla superficie ma vogliono risultati profondi. È un po’ come questo tempo in cui tutti parlano della pandemia ma poi ci sono quelli che studiano il virus e le sue mutazioni e devono trovare le soluzioni concrete e scientificamente corrette.

Tutti hanno una musica del cuore, un motivetto cantabile o un capolavoro, ma solo alcuni scrivono la musica perché conoscono e usano le regole della composizione.

Tutti hanno capito che lo Stretto di Messina è bello da vedere ma non tutti sanno quanti modi articolati ci sono di vedere anche attraverso e per mezzo delle costruzioni.

Abbiamo massacrato una città e le sue coste e costruito sulle colline impossibili pur di avere la vista dello Stretto; abbiamo legittimato tutte le peggiori speculazioni collinari con le leggi del mercato comprando e affittando quelle case pur di avere la vista esclusiva; abbiamo dilapidato le marine dei villaggi per acquistare le seconde case a pochi passi dalla battigia; abbiamo seppellito le riviere di nord e di sud con le baracchette, i pub, i ristoranti, le pizzerie e i giocarelli sui terreni demaniali con ecumenico e grande successo popolare. Eppure sembra che il mare sia “negato” proprio in quel punto in cui stanno per costruire il nuovo Padiglione 1 presso la ex fiera di Messina dove molti preferirebbero un angolo “sbracato” con giardinetti. Comunque vada speriamo che l’architettura gemmi ma intanto “Amo gli inizi!“

 

Dal blog “il corpo delle cose”

 

 

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