Quali visioni del mondo sono in gioco quando si parla di Cateno De Luca? È una domanda per molti ineludibile, che rischia di esporre colui che provasse a rispondere al rischio di risultare parziale, ideologico oppure “antipatico”, come antipatici ai più risultano spesso gli intellettuali. Persone, secondo la vulgata prevalente, notoriamente incapaci di sintonizzarsi col senso comune, autoreferenziali e, spesso, anche più garantiti della media dei cittadini. Salvaguardati, cioè, dalla miseria del mondo comune.

Tuttavia il problema è se dinanzi allo scempio quotidiano della civiltà giuridica e, soprattutto, dell’ampio sostegno sociale di cui questo processo gode, di risultare simpatici ed empatici con le ragioni dei più possa importare molto.

L’empatia, infatti, in politica è soprattutto un’arma. Quella con cui si conquista l’egemonia culturale. Questa egemonia è oggi saldamente in mano al Sindaco e, prima di lui, a Salvini. E non vi è nulla al momento che possa contrastarla. Le opposizioni si mettano il cuore in pace: questa egemonia la si può forse contrastare con mezzi tecnico-costituzionali, oppure per via giudiziaria. Ma non nei termini più autenticamente politici, ossia di sentimento. E il sentimento è oggi con De Luca (e con Salvini).

Tornando così alla domanda originaria e alle sue ragioni, bisognerà ricordare ancora una volta che De Luca, come ho già detto su queste stesse pagine, è “diabolico”. Non solo perché è straordinariamente attivo (“una ne fa e cento ne pensa”), ma perché divide. Diabolico, infatti, è etimologicamente ciò che divide, separa e pone in contrasto. Il suo governo – saremo tutti d’accordo – è dunque quello dello shock e della separazione.

In questo quadro – che agisce su livelli molto intimi della cultura locale, relativamente poco connessi con la classe sociale – la divisione è già un dato di fatto: è quella elementare tra chi il Sindaco lo sostiene (i più) e chi lo oppone (i pochi). Nessuna riconciliazione è possibile tra questi gruppi perché chi oppone De Luca lo fa su basi che gli altri giudicano astratte; mentre i sostenitori adoperano categorie che ai loro concorrenti appaiono semplicemente primordiali. 

De Luca incarna per i più l’ordine e la modernità. Ossia la possibilità di dare un volto alla città che corrisponda a modelli di civiltà e sviluppo economico propri del nord del paese, se non addirittura esteri (per esempio l’aspirazione, ricorrente nei commenti on line, a fare di Messina una “piccola Svizzera”. Malgrado la Svizzera a tratti fatichi a dipingersi come vorrebbero molti. Qui un esempio).

Per gli altri De Luca è invece un fatto di volgare populismo e la sua modernità consisterebbe nel consegnare Messina a quel rancore organizzato che corrisponde alla storia recente della città settentrionale, con la sua lotta ai poveri e la rincorsa a produrre una città fondata sugli interessi dei negozianti. In particolari di  quelli del lusso, del franchising e dei proprietari di immobili di pregio. Gli stessi, peraltro, che hanno interesse a conversioni turistiche delle città fatte di bed & breakfast, airbnb e di simili strutture d’accoglienza diffuse, il cui è effetto è generalmente teso ad aumentare la disuguaglianza sociale (le fonti su richiesta. Sono troppe per inserirle qui).

Ma De Luca, si dirà, piace soprattutto alle classi basse, che ne riconoscono il linguaggio, ne constatano la presenza fisica e l’impegno quotidiano. Per chi gli si oppone, tuttavia, è già il linguaggio a costituire un serio problema, essendo questo spesso oggettivamente volgare, privo di limiti, permanentemente astioso, teso a identificare nuovi nemici, paternalista e anche sessista. Ma, soprattutto, manipolatorio. Per i suoi oppositori, infatti, il linguaggio di De Luca un’arma che costruisce mondi e comunità immaginarie, in cui i buoni e i civili stanno da un lato e i cattivi e gli incivili dall’altro (per l’appunto, il “diabolico”).

Per chi gli si oppone, dunque, il punto è che questa visione del mondo è deresponsabilizzante e farisea. Ossia ipocrita. Come mostrano infatti i commenti di sostenitori del sindaco prevalenti su Facebook, tale visione implica l’idea di una società di “buoni” che in passato non ha mai votato secondo logiche clientelari, non ha tratto benefici dalle illegalità e dalle sanatorie. Una società, anzi, di oppressi dalla “vecchia politica”, che non ha mai evaso neanche uno scontrino, non ha mai parcheggiato la macchina in seconda fila, non ha mai comperato nulla da una bancarella abusiva e, da qualche tempo sappiamo, non ha mai atteso i servizi di una prostituta. Una società di oppressi che oggi ha finalmente la possibilità di ottenere giustizia e vuole anzi il pugno duro. Durissimo.

Ma questa diffusa società di buoni – è la domanda di chi si oppone oggi a De Luca e alla sua opinione pubblica – è mai esistita a Messina? E chi animava dunque l’ingente “inciviltà di massa” contro cui la città dei buoni è oggi in lotta?

Soprattutto – dato che si oppone a De Luca è spesso astratto e intellettuale – la domanda di alcuni scettici è se, nel quadro delle relazioni storiche tra nord e sud, quella Messina fatta di buoni ha mai avuto alcuna possibilità di esistere nei termini in cui la si racconta oggi? Per chi infatti ricorda la storia, e non può dunque accettare le ricostruzioni di De Luca e delle sue folle plaudenti, la Messina del voto di scambio e della tolleranza verso le piccole e grandi illegalità non era certo un fatto di inciviltà individuali. Né, tantomeno, era un fatto numericamente residuale.

Era, al contrario, un fenomeno di massa. E la precisa risultanza di un realismo politico nazionale che suppliva al ritardo con forme di tolleranza volte a stimolare un’economia irregolare che avesse però ricadute sociali, per esempio nei termini dell’impiego di quella forza lavoro non-qualificata che era preponderante al Sud (è stato questo infatti il ruolo dell’edilizia) e che, contemporaneamente, supplisse alle inefficienze di un welfare pubblico che escludeva intere quote di popolazione, secondo il ben noto paradosso “lavorista” per cui gli esclusi dalle occupazioni regolari non risultavano garantiti e si avvitavano nella povertà (ecco, dunque, perché l’ambulantato è proliferato nella nostra città e nel meridione. A parte elementi come la legislazione sulle licenze, che esclude molti pregiudicati dalla possibilità di ottenerle).

Ugualmente, per chi ha qualche nozione di urbanistica e si oppone dunque alle semplificazioni di De Luca e dei suoi sostenitori, l’inciviltà stradale è la risultanza obbligata di una configurazione urbana che si estende per otre 60 km da nord a sud e non è però policentrica dal punto di vista delle funzioni (dai servizi al lavoro, alla socialità e al tempo libero); che, anzi, concentra in un’area alquanto ristretta quasi tutte le principali attività sociali. E che lo fa, soprattutto, entro uno spazio insufficiente rispetto al parco auto, alle distanze e ai trasporti. Non un fatto di inciviltà dei singoli, dunque. Ma l’esito naturale e fisiologico di una progettazione urbana originaria che era sì irrazionale da un punto di vista tecnico, ma che in realtà cedeva sui punti fondamentali a favore di una speculazione dotata di precise finalità socio-economiche: quelle, come si è detto, atte a impiegare una ingente forza lavoro priva di sbocchi diversi dall’emigrazione o dal crimine.

L’articolo è già troppo lungo, ma tanto – perdonerete l’arroganza – non è un articolo pensato davvero per tutti. È un modesto articolo che, però, si rivolge soprattutto a quella borghesia colta che inizia a sentire simpatie per il sindaco o si sente disarmata. Alla luce di questa avvertenza, e muniti di pazienza, resta dunque da affrontare un’ultima questione. Se, per le masse reazionarie e in parte anche opportuniste che lo sostengono, De Luca è l’uomo forte e lo sceriffo di cui la città ha bisogno, per chi lo oppone il Sindaco è la negazione dei principi costituzionali che vogliono la divisione tra potere politico e potere di polizia (anche se la legislazione lo indica come massima autorità di pubblica sicurezza, lo sappiamo già).

Il suo protagonismo nei “blitz” – parola appartenente al lessico della guerra – è per esempio il segno di una guerra rivolta alla cittadinanza nella propria interezza e non solo contro alcuni, come si dice. Per chi lo respinge, il suo linguaggio minaccioso non è rivolto solo contro gli incivili o i fantomatici nullafacenti della pubblica amministrazione comunale, ma un tentativo generale di assoggettamento. L’assoggettamento di chi ci sta e di chi non ci sta.

Ecco perciò che la differenza tra chi lo sostiene e chi lo oppone appare, in termini appena più avanzati rispetto alla prima definizione, la differenza tra chi sta dentro la democrazia (gli oppositori) e chi ne sta fuori (i sostenitori). Ossia di coloro che sono schierati per istinto, convenienza o per fame di “modernità” con l’autoritarismo e le degenerazioni della dittatura della maggioranza.

Il discorso continua in altra puntata… Ciò che conta per ora è osservare che, posti di fronte alla rilevanza sociale delle divisioni e all’impossibilità di invertire politicamente i rapporti di forza, della simpatia e della comprensione delle ragioni “dei più” importa davvero poco. Molto meglio impegnarsi a fare emergere con chiarezza il conflitto di visioni e di “personalità”, insieme alle parole mancanti per dire che quella in atto nelle strade e nell’Internet della città è più che una battaglia politica cittadina, ma l’attuazione locale di uno scontro di civiltà e di regimi di verità che non ammettono ambivalenze né indifferenza. 

 

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