Di Claudio Staiti
MESSINA. «Lo Stretto di Messina si restringeva sempre di più man mano che la ‘Lawrence’ lo attraversava a nord, e il rumore sulle spiagge si faceva più forte mentre ci avvicinavamo. Quando la nave fu pronta a virare a nord-est attraverso la parte più stretta, la spiaggia era a solo un miglio e mezzo di distanza e l’equipaggio poté sentire la gente gridare verso la nave. “Il capitano dice che sono gli italiani che stanno ancora festeggiando la fine della guerra. Se guardi con il binocolo puoi vedere le chiese tutte illuminate e la gente che balla per le strade”. “Alle tre del mattino?”. “Per loro è un grande avvenimento, lo sarebbe anche per noi se la guerra fosse finita”».
In un romanzo del 1994, curiosamente intitolato Straits of Messina, il viceammiraglio della marina statunitense William Mack avrebbe raccontato così il passaggio, nell’estate del 1943, nel corso dell’occupazione anglo-americana dell’isola, di un convoglio statunitense lungo il braccio di mare tra Sicilia e Calabria. L’episodio, per quanto plausibile, doveva basarsi su racconti di altri o su una personale invenzione letteraria dell’autore, in quanto, durante la Seconda guerra mondiale, Mack aveva prestato servizio sul fronte del Pacifico e non poteva dunque avere assistito di persona a quell’avvenimento.
Se ci si sposta nell’ambito delle memorie di chi effettivamente fu sul campo (sia da parte italiana che anglo-americana), scandagliate con attenzione, anch’esse rivelano talvolta imprecisioni, omissioni, esagerazioni o, al contrario, minimizzazioni. Lo hanno messo bene in evidenza storici siciliani come Francesco Renda, Rosario Mangiameli, Salvatore Lupo, Manoela Patti e Tommaso Baris, che, per evitare il rischio di una “storia a metà”, hanno posto l’accento sulla complessità della vicenda, riflettendo soprattutto sul duplice ruolo di liberatori-occupanti degli eserciti comandati dall’americano George Patton e dall’inglese Bernard Montgomery. Oltre a sfatare l’eterno mito per cui “la mafia aiutò lo sbarco”, gli studiosi hanno dimostrato, tra le altre cose, che non è opportuno parlare, come spesso si è fatto, di scarsa resistenza da parte dei siciliani: ci fu, anzi, una strenua e accanita difesa dei soldati della 6ª Armata (il 70% dei quali era siciliano), che avvenne in condizioni di netta inferiorità e con poco sostegno da parte dell’alleato tedesco.
Quest’ultimo, invece, si rese protagonista di diversi atti di ferocia verso la popolazione locale, come, tra il 12 e il 14 agosto, l’esecuzione di venti civili a Castiglione di Sicilia e di cinque carabinieri e un civile a Ortoliuzzo. Dall’altro lato, gli storici hanno anche gettato luce sulle uccisioni da parte degli occupanti di diversi militari che si erano arresi e di alcuni contadini, atti per i quali furono celebrati dei processi e che fecero sì che, fortunatamente, l’atteggiamento verso i prigionieri e i locali cambiasse presto.
Ma ciò che più di ogni cosa colpì i siciliani in quell’estate del ’43, accanto all’innegabile sollievo per la liberazione, fu la triste consapevolezza che per ottenerla, le proprie città erano state lungamente sotto il fuoco nemico, con una immane distruzione degli edifici e con la perdita di numerose vite innocenti. Fin dal gennaio 1943 si erano intensificati i bombardamenti, che avvennero anche in pieno giorno, con lo scopo di distruggere obiettivi sensibili ma anche di minare lo spirito pubblico. Furono in molti (chi poteva permetterselo) a scegliere la fuga verso le campagne, anche perché nelle città iniziava a scarseggiare il cibo. Qui rimasero i lavoratori essenziali e i più poveri, che trovarono riparo nei rifugi antiaereo, spesso ammassati e in condizioni igieniche paurose.
Lungamente atteso, dopo una faticosa avanzata attraverso i monti dell’area nordorientale, e dopo la veloce e rocambolesca evacuazione delle divisioni tedesche verso la terraferma con motozattere, traghetti e imbarcazioni di fortuna, l’arrivo nella città dello Stretto da parte delle truppe dell’8ª armata britannica e della 7ª armata americana avvenne il 17 agosto 1943. La sera prima, le avanguardie del 7° reggimento americano, dopo aver risalito i Peloritani, erano arrivati nel villaggio di Gesso. Qui, secondo quanto riporta il giornalista Enzo Verzera nel suo “Messina ‘43” (GBM, 1976), un capitano nativo di Spadafora prese possesso del villaggio, convocò in piazza l’ex fiduciario del fascio locale, il delegato del podestà e il maresciallo dei carabinieri e chiese loro di scendere in città e avvisare le autorità locali che ogni altra resistenza armata sarebbe stata inutile. Una volta raggiunto e scortato in una vecchia casa nei pressi delle Quattro Strade, sui colli S. Rizzo, dove lo attendeva «la firma di un foglio già compilato in cui si compendiava l’atto di resa della città di Messina», nella prima mattina del 17, il comandante della Difesa Territoriale, Michele Tomasello, si rifiutò però di firmare richiamandosi «al regolamento di guerra, secondo il quale essendo la Piazza di Messina caduta senza combattimenti non c’era alcuna resa da firmare». In ogni caso, intorno alle 11, il generale americano Patton entrò a Messina, “battendo” di alcune ore le avanguardie britanniche di Montgomery che avanzavano dalla litoranea di Catania con qualche difficoltà, dato che i tedeschi avevano fatto saltare tutti i ponti sui fiumi e sui torrenti (l’arrivo di Montgomery a Messina e l’incontro con l’omologo americano è stato rappresentato nel film premio Oscar del 1970 Patton, in una scena – girata in Almería, nel sud della Spagna – abbastanza surreale e a tratti involontariamente comica).
La prima cosa che Patton fece fu far innalzare una bandiera americana sul balcone del Municipio, naturalmente immortalato dai propri cineoperatori. Alla resa militare seguì la “resa civile”, con l’incontro degli occupanti con il vicequestore della città e il reggente dell’amministrazione provinciale. All’arcivescovo Paino, la cui amicizia personale con Mussolini era cosa nota, fu chiesto di rientrare a Messina da Rometta e di trattenersi per alcuni mesi presso il Seminario di Giostra in stato di arresto “domiciliare”. Dopo trentotto giorni, si concludeva così l’operazione “Husky”, progettata a Casablanca a gennaio, pianificata presso le cabine di guerra segrete nell’isola di Malta, e avviata, nella sua fase operativa, dallo sbarco nella notte tra il 9 e il 10 luglio da parte degli inglesi nel tratto di costa tra Pozzallo e Avola e da parte degli americani tra Pozzallo e Licata. Nel corso della battaglia per l’arrivo a Messina, si era verificato il crollo del regime fascista e la nomina di Badoglio a capo del governo (25 luglio), due fatti visti con favore dagli alleati e che rafforzarono in loro l’idea di continuare la guerra sul continente. L’Italia rimaneva un Paese nemico e fu quindi disposta l’istituzione dell’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory) che si mantenne, anche dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre, sino al febbraio 1944, quando le funzioni amministrative furono trasferite al governo italiano con sede a Salerno.
Quale città accolse inglesi e americani?
Dal 29 luglio al 17 agosto, Messina aveva subìto in pieno le fasi finali della battaglia di Sicilia, patendo il maggior numero di incursioni aeree alleate: durante la prima settimana di agosto, 121 volte di giorno e 225 di notte. Complessivamente, durante i primi quindici giorni di agosto, Messina era stata colpita da 6.542 tonnellate di esplosivo. La città, però, aveva osservato da vicino gli esiti catastrofici della guerra voluta dal Duce già a partire dal 9 gennaio 1941, quando erano stati sganciati spezzoni incendiari in via Tommaso Cannizzaro, nei pressi dell’Università, e in via Cesare Battisti. Nel corso degli anni seguenti, e in particolare dal marzo del ’43, furono colpiti a turno (o ripetutamente) non solo i punti ritenuti nevralgici quali la stazione, il porto o la zona industriale, ma anche palazzi pubblici e privati, scuole, ospedali, banche, il cimitero e diverse chiese, fra cui, com’è noto, la Cattedrale, inaugurata appena tredici anni prima, che andò in fumo la notte del 13 giugno a seguito di due spezzoni incendiari, e della quale restarono solo le strutture perimetrali, mentre ciò che era stato recuperato dopo il terremoto fu quasi del tutto ridotto in cenere. Con l’avvicinarsi dello sbarco, i velivoli non mirarono più agli obiettivi militari ma fecero del centro abitato la cosiddetta “area bombing” e la martellarono incessantemente. Nel frattempo, la città si era già svuotata. La “molla” che fece scattare l’esodo fu un evento bellico avvenuto il 30 gennaio 1943.
«All’inizio del 1943 – ricorda il giornalista Giuseppe Loteta nel libro “Pagine messinesi. Alla ricerca dell’identità perduta” (Pungitopo, 2016) – si profilava la sconfitta e su Messina erano cominciati i micidiali bombardamenti a tappeto dei quadrimotori americani. Il primo di questi, a mezzogiorno del 30 gennaio, fece enormi danni in città e ridusse a un cumulo di macerie molte delle case a un passo dalla nostra casa. Morti e feriti a non finire. Poiché prima di quel giorno le incursioni mattutine erano effettuate soltanto da innocui aerei inglesi che se la cavavano con il lancio mirato di qualche bomba e di qualche spezzone incendiario, l’attacco americano fu inaspettato e devastante. Casa nostra, pur circondata dalle bombe, rimase fortunatamente in piedi per via del cemento armato delle costruzioni realmente antisismiche di allora. Ma mia madre decise lo stesso di portarmi via da quell’inferno. Attilio e i suoi genitori erano già sfollati a Galati, un paesino di mare non lontano dalla città. Era lì che per il momento dovevamo andare. Ma come? Treni, tram, automobili, neanche a parlarne. Quel giorno, tra le macerie della città, nulla funzionava. A piedi? A piedi. Sono solo dieci chilometri, in fondo. […] Quando arrivammo a Tremestieri, a poco più di metà del percorso, ci sorprese un altro bombardamento. […] Ci rifugiammo in una casa di pescatori a pianterreno, gremita di altra gente che si riparava alla meglio. E lì, tra un’esplosione e l’altra, sentii per la prima volta parlar male apertamente del duce. I pescatori non avevano peli sulla lingua. “Quel cornuto!”. “A soi è a cuppa”. “Non l’avia a fari a guerra”. “Fici mòriri i figghi ‘i matri”. “Ava a mòriri puru iddu”. Come erapossibile? Era di Mussolini che parlavano? Del Duce degli italiani? Del condottiero, le cui gesta avevano riempito la nostra vita, le nostre parate pre-militari e i nostri componimenti scolastici fino a quel momento? Ma è proprio vero? E se queste persone dicessero la verità? Il dubbio cominciò a farsi strada dentro di me. La consapevolezza arrivò dopo, con la distruzione pressochétotale di Messina, l’arrivo degli eserciti alleati e la rinascita della democrazia».
Le immagini degli edifici sventrati testimoniano la furia violenta che colpì la città dello Stretto, che, a seguito dei gravi danni e delle ingenti perdite, ma anche e soprattutto come riconoscimento degli sforzi compiuti per la sua rinascita, sarebbe stata insignita della Medaglia d’oro al Valor Civile nel 1959 e della Medaglia d’oro al Valor Militare nel 1978. «Messina – disse Alfredo Cucco, vice segretario del Partito Fascista inviato in città il 19 maggio 1943 per rendersi conto di persona della situazione e relazionare a Mussolini – presentava una visione strana, andava assumendo un duplice aspetto: un aspetto di dolina carsica battuta da una artiglieria massacrante; l’altro aspetto richiamava in parte Messina del terremoto del 1908». Una conferma arrivò anche dagli ufficiali della Royal Force che dopo l’ultimo attacco scrissero che «quell’infelice città appariva ridotta in condizione quasi simile a quella in cui fu ridotta dal terremoto». Tuttavia, a bombardamenti conclusi, la visione della città dall’alto non faceva sembrare così evidenti i danni. L’impressione che colsero i piloti degli aerei nemici sorvolando Messina era quella di una città ancora integra (forse grazie alla resistenza delle strutture in calcestruzzo armato), una «città fantasma», come gli stessi, se diamo credito alla tradizionale vulgata, l’avrebbero definita.
Torniamo al 17 agosto 1943: «Quella mattina – scrive Enzo Verzera – migliaia di persone si riversarono in città dalle gallerie e dalle campagne e per la prima volta si resero conto degli effetti disastrosi causati dai bombardamenti a tappeto dei quadrimotori americani. Messina era ridotta a un ammasso di rovine. […] Carcasse di veicoli di ogni tipo erano disseminati lungo le strade della ritirata, cannoni e mitragliatrici ammonticchiati in Piazza Cairoli sotto gli alberi mutilati dalle schegge, in via Calabria, nei pressi delle invasature delle navi traghetto, sulle banchine del porto sconvolte dalle esplosioni. […] Un sole violento illuminava quello scenario di morte. Molti trovarono le loro case distrutte, altri inabitabili. […] Lo sciamare convulso, silenzioso, di uomini, donne, bambini fra le macerie continuò per l’intera giornata, mentre le camionette della polizia inglese perlustravano le vie del centro alla ricerca di cecchini tedeschi, e i reparti del genio lavoravano allo sgombero delle macerie. […] Frattanto in via Cesare Battisti, in piazza Due Vie, davanti al Palazzo Ufficiali di via Tommaso Cannizzaro erano sorti i primi mercatini gestiti dai borsaneristi che acquistavano dagli inglesi e dagli americani scatolette di carne, sigarette, farina, pullover, camicie, pantaloni, scarponi per rivenderli ai messinesi scalzi e affamati».
Sul terzo numero dell’edizione siciliana del giornale delle truppe americane “The Stars and Stripes”, che si era da poco iniziato a stampare a Palermo, è possibile cogliere il punto di vista degli stessi occupanti che descrivono i primi momenti in cui incontrarono la popolazione. «Messina – scrisse il sergente Ralph Martin il 20 agosto 1943 – era solo un altro cumulo di pietre in rovina dove un tempo c’erano gli edifici, e dove vivevano le persone. Ma quando due reparti americani sono entrati in città martedì alle 5, la vita è tornata tra le macerie. La gente ha lasciato le proprie caverne per andare a caccia di qualche bandiera americana e sfilare per le strade, applaudendo così forte da coprire il suono della loro piccola banda che suonava con strumenti malconci. E nelle vie secondarie, che si snodavano fino alla cima della collina, c’era una lunga colonna di bambini, dei vecchi con carretti trainati da asini e diverse decine di donne incinte cariche di sacchi di farina e di grandi barattoli di cibo. Questi siciliani affamati, da troppo tempo senza cibo, si erano introdotti in un magazzino militare che era molto fornito e lo avevano svuotato».
Dopo avere descritto quelle prime ore dell’ultimo giorno della campagna di Sicilia, il sergente Martin, certo che i suoi lettori lo avrebbero compreso, si concedeva un’ardita descrizione dello Stretto di Messina e della costa calabra, che a suoi occhi appariva come la sponda del New Jersey «vista da chi si trovi sull’altra estremità del ponte George Washington» a Manhattan. Il sergente Jack Foisie, in un altro articolo, faceva invece presente come la principale preoccupazione della popolazione incontrata tra le strade fosse accertarsi che non ci sarebbero più stati altri bombardamenti: «Sempre domandavano: “Boom-boom finire?” e indicavano il cielo. “Americano boom-boom finito”, rispondevano gli Yanks, “ma possibile tedesco boom-boom”, indicando la terraferma italiana». Anche agli occhi dello stesso cronista Messina appariva una città morta: «Le bombe alleate hanno fatto un lavoro quasi simile a quello del terremoto del 1908 che in 30 secondi ha distrutto l’intera città».
Probabilmente, a pensarci bene, anche ognuno di noi conserva un ricordo familiare di quei giorni di agosto del ’43.
Se ci chiedessero di raccontarlo verrebbe fuori un gigantesco caleidoscopio di memorie in bianco e nero. Sono storie in cui, forse per la prima volta, testimoni oculari della guerra non sono stati soltanto gli uomini, i combattenti (per molti dei quali essa sarebbe durata ancora a lungo, trovandosi fuori dall’isola alla firma dell’armistizio e arrivando a scegliere la via di Salò, quella dei partigiani oppure finendo sotto il giogo tedesco come internati militari), ma anche le donne. Mia nonna, classe 1924, mi raccontava, ad esempio, che quando tornò dallo sfollamento in provincia verso la fine di quel mese, una delle prime cose che fece, dopo che riuscì a riottenere la propria casa, che nel frattempo era stata spogliata di tutti i mobili e poi occupata dagli inglesi, fu andare al Duomo per vedere con i propri occhi la grande tragedia di cui le avevano parlato, portandosi per sempre quell’immagine della cattedrale in cui «il soffitto non c’era più e tutto intorno era come polverizzato». L’altra mia nonna, sempre classe 1924, mi raccontava invece di quando uno dei soldati “americani” che sfilavano sulla strada distribuendo scatolette di carne, cioccolata e sigarette, notò una M ricamata sulla sua camicetta, si fermò e le chiese se, per caso, quella fosse la M di Mussolini. «No, Mary» rispose lei che, in effetti, si fece chiamare così tutta la vita, anche per distinguersi dalla madre che pure si chiamava Maria. Ecco: sono solo due delle tante memorie che di sicuro ciascuno di noi custodisce in casa. Quelle di padri, madri, nonni, nonne che hanno dovuto assistere, impotenti, alla distruzione, una seconda volta, della propria città ma che non si sono persi d’animo e, poi, l’hanno ricostruita.
In foto:
Il soldato americano Otis Spradling di Ashcamp (Kentucky) in pattuglia sulla balconata della caserma Antonio Sabato nell’agosto del 1943 (Associated Press).
Un soldato americano accende una sigaretta a uno inglese mentre sono seduti sulla Fontana del Nettuno con una bandiera nazista sotto i piedi (elaborazione grafica di Marco Crupi per il progetto “Messina ieri e oggi”).