A Messina, dicevi “basso” e immediatamente pensavi a lui, a Pippo Mafali, al barbuto omaccione con la faccia gentile che quelle quattro corde le accarezzava meglio di chiunque altro. Pippo Mafali, in realtà, era molto più che un bassista. Diplomato in contrabasso, musicista dell’orchestra del teatro Vittorio Emanuele di Messina, un curriculum lungo così e decine di collaborazioni importanti. Era però con le quattro corde grosse che la sua creatività decollava.

In città, chiunque suonasse, qualsiasi strumento suonasse, prima o poi ne incrociava la strada.

L’Otis, storico locale ormai chiuso dentro la galleria Vittorio Emanuele, quando la galleria era buia, sporca e meta di sbandati, per la generazione di Pippo Mafali è stato palestra di musica e di vita. Un locale fumoso, un palco stretto e male in arnese, strumenti a disposizione di chi volesse cimentarsi. E Pippo Mafali era lì, a macinare blues, jazz, funk, rock, fusion. Qualsiasi genere, con chiunque, ogni sera. Erano i tardi anni ‘80. Nel frattempo, gli studi classici, e quel diploma in contrabasso che lo ha portato in giro per l’Italia e l’Europa, a suonare al fianco di mostri sacri e orchestre, di gruppetti da pub e band di amici con qualche sera da trascorrere senza pensare troppo, facendo solo musica.

Perché è lì che Pippo Mafali tornava sempre. Alla musica. Alla pulsazione del basso. Un verbo che sua missione era predicare.

Il groove, ragazzi, il groove”, ripeteva a noi poco più che ventenni, che per la prima volta prendevamo in mano gli strumenti, nella prima metà degli anni ‘90 e volevamo solo pestare veloce, forte e duro. “Dove sono le note che fanno camminare la canzone?”, spiegava, predicando nel deserto, tentando di inculcare il verbo del ritmo, del drive a noi che il basso in mano l’avevamo preso solo due mesi prima e per ripiego, pensando che quattro corde fossero per una questione matematica più semplici da suonare delle sei di una chitarra. Altro che groove, negli anni ‘90 il basso era il parente stupido della chitarra ritmica, e più che groove si macinavano ottave a plettrate violente col basso vicino alle ginocchia. Poi lo vedevi, sul palco con i King Biscuit Time, a macinare shuffle blues, a dare corpo ai pezzi, a farli camminare. E d’improvviso ti accorgevi che c’era un mondo oltre la distorsione e i tre accordi rock.

E nonostante la mia barbarie musicale, non solo Pippo Mafali acconsentì a prestarmi uno dei suoi bassi per non far saltare una registrazione quando il mio non ne volle più inspiegabilmente saperne di funzionare durante una session già di suo  abbastanza complicata, ma addirittura mi lasciò la possibilità di scegliere tra un maestoso Rickenbacker 5 corde ed un piuttosto raro Fender Musicmaster. A me, che lo conoscevo appena e il basso lo maneggiavo più o meno come una clava (scelsi il Fender, il Rickenbacker cinque corde ne aveva almeno tre di troppo, di corde, per la mia perizia musicale).

C’era, ci insegnò, un mondo di note suadenti, imponenti, che partiva da Donald Dunn e finiva a Pino Palladino, un mondo dove il bassista non è il tipo che suona lo strumento incollato al mento mentre si guarda la punta delle scarpe, ma può essere la spina dorsale, il cervello, i muscoli del pezzo.

Da cinque anni Pippo Mafali non c’è più.Pippuzzo il sauro”, come lo chiamavano gli amici intimi, ha forgiato generazioni di bassisti, da Massimo Laganà a Massimo Pino, ha suonato con e per Chet Baker, Dave Holland, John Ambercrombie, Jack De Johnette, Roberto Gatto, Bruno Tommaso, Tony Esposito, Edoardo Bennato e Carmen Consoli, ha registrato da solo e con i Kunsertu, dal pop al jazz, dal soul alle rock opera. Si deve a lui e a Dino Scuderi, infatti, la messa in scena di Jesus Christ Superstar, rock opera in cui, nel 1994, ha partecipato come bassista e maestro del coro.

Giovedì i suoi amici lo ricorderanno con una serata di musica, Colours. Al Palacultura, dalle 21.00. Un saluto. E un omaggio. In chiave di basso.

 

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