All’indomani del terremoto del 1908 le piazze di Messina, prima del sisma vissute come grandi contenitori di eventi, come teatri, come luoghi deputati, a seguito della loro scomparsa non offrirono più la caratteristica di spazi all’interno dei quali la comunità intera si rispecchiava e celebrava i suoi rituali (le feste, i comizi, le sfilate, i funerali etc.).

A seguito del cataclisma Messina si era infatti ritrovata – letteralmente – al suo “Ground Zero”, sprofondando e arretrando fino a scorgere il luogo originario antecedente la propria esistenza di città. La crisi del vuoto delle macerie, l’assenza di punti di riferimento e di orientamento, l’impossibilità di dotare la città disastrata di un reticolo protettivo di coordinate valevoli a restituire domesticità agli spazi, in una parola lo smantellamento reale e simbolico delle proprie fondamenta, tutto ciò fece sì che la comunità dei sopravvissuti smarrisse in breve tempo qualunque “sentimento dello spazio”. Molte cronache del tempo descrivono lo stupore e l’angoscia della gente che, da qualunque parte volgesse lo sguardo, scorgeva sempre il cielo.

La sparuta comunità dei superstiti cercò in qualche modo di fronteggiare il rischio del vuoto sperimentando sincopate strategie di domesticazione territoriale. Prima ancora che la parziale ricostruzione in baracca dotasse la città di una nuova, ancorché misera e provvisoria, configurazione urbanistica, Messina fu attraversata da processioni spontanee, da “camminamenti” attraverso le distruzioni al seguito di un fercolo rinvenuto tra le macerie di una chiesa e chiamato a svolgere la funzione di axis mundi.

Il problema per i sopravvissuti era infatti quello di sperimentare, dopo il disastro, forme di ancoraggio dell’identità cittadina – individuale e comunitaria – a nuovi quadri di riferimento. Per i ceti egemoni, nel caso del sisma peloritano, tale ancoraggio era di fatto affidato ai monumenta che segnavano il loro status e ai documenta che ne conservavano la storia. Per i ceti subalterni, in assenza di entrambe le realtà, a garantire mantenimento e continuità nel tempo non potevano che rimanere i soli meccanismi della memoria e il lavorìo di addomesticamento dello spazio, atteso che il vuoto delle macerie esigeva perentoriamente la ricostruzione di uno spazio vissuto, “umanato”.

Mutando il contesto storico, mi pare che anche le attuali contingenze produrranno effetti di spaesamento, di piccola ma cruciale “fine del mondo” in tutti coloro che, a piccoli passi, sperimenteranno il ritorno a una vita normale.

Normale? Facile a dirsi, o a sperarsi! Di fatto, la normalità alla quale eravamo abituati non potrà più costituire il nostro orizzonte quotidiano.

Al netto dei droni e delle baggianate messe in campo negli ultimi due mesi, occorrerà infatti avviare una rinnovata organizzazione e plasmazione degli spazi, un rinnovato controllo sulle spinte eccentriche ad essi sottese, e soprattutto una nuova, mai prima d’ora sperimentata, prassi negoziatoria tra il “dentro” e il “fuori”, che hanno in questi mesi smarrito le proprie abituali coordinate.

Occorrerà attivare nuove, e ben diverse dal passato, strategie atte a porre in essere articolati meccanismi di protezione simbolica. Allorché gli spazi domestici non sono più protetti, come è di fatto avvenuto nel caso dei nostri spazi abituali di manovra che volenti o nolenti siamo ormai indotti a considerare contaminati, il rischio – ben più grave degli esiti letali della pandemia che hanno interessato un ridotto numero di persone – è quello di un progressivo scivolamento dalla città culturalmente determinata, dalle opere e dai giorni della sua comunità, alla Ingens Sylva (G.B. Vico) che tende a riguadagnare uno spazio un tempo antropizzato alla natura da cui esso proviene.

Credo che a poco varranno le tradizionali strategie di “sacralizzazione”. Il mutamento nei rapporti spaziali tra le persone imporrà una nuova prossemica, e la paura di contatti rischiosi condizionerà anche la nostra cinesica, il nostro muoverci al di fuori della sicura ma asfissiante placenta domestica.

Già l’attuale periodo di quarantena, di isolamento domestico ha suscitato la naturale esigenza di creare reti (materiali o immateriali) di socializzazione, di condivisione comunitaria di forme plurime di vitalità. I flash mob dai balconi, i concerti virtuali on line, il vario e articolato scambiarsi sui social paure, recriminazioni, pensieri, speranze, cos’altro hanno rappresentato se non l’avvio di agorà telematiche che attendono con impazienza di diventare piazze reali, fisiche, calate negli spazi oggi preclusi?

Mircea Eliade, il grande storico delle religioni, ha posto in risalto l’irriducibile alterità esistente tra lo spazio sacro e quello profano, lo spazio del costruito e quello della selva esterna, lo spazio del lavoro, del rito, della società, della vita, lo spazio domestico, autentico, “appaesato” e quello oscuro, rischioso, inautentico, angosciante, alieno, “spaesante” (Freud direbbe unheimliche, “perturbante”).

L’etnologo de Martino, in uno studio esemplare di oltre mezzo secolo fa (Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini ), mise in luce come il pellegrinare degli aborigeni australiani, la cui cultura nomade esigeva il continuo addentrarsi in un territorio ostile e sconosciuto sotto la spinta delle varie necessità connesse alla ricerca di cibo, fosse punteggiato da riti consistenti nel ripetere simbolicamente il mito della creazione, indirizzati a riplasmare sempre di nuovo uno spazio rischioso e alieno trasformandolo in “patria”; si tratta com’è evidente di una strategia consistente nella periodica rifondazione del proprio universo simbolico che giova a “tenere in piedi”, a dotare di senso l’universo reale.

In particolare, presso il gruppo totemico Achilpa delle tribù Aranda assumeva un ruolo di primo piano il palo kauwa-auwa, il più sacro oggetto cerimoniale della tribù, una sorta di centro di comunicazione fra i diversi piani cosmici.

Gli aborigeni piantavano il palo ovunque eleggessero il loro temporaneo soggiorno. De Martino mostrò come la funzione del palo kauwa-auwa fosse sostanzialmente quella di destorificare la peregrinazione: gli Achilpa, in forza del palo attorno al quale procedevano nella conquista di nuovi spazi, “camminavano mantenendosi sempre al centro”. Il palo kauwa-auwa era per loro, per così dire, un asse del mondo in movimento.

Il problema allora, per una città come Messina che da decenni ha assunto la poco lusinghiera caratteristica di non-luogo, sarà quello di apprendere faticosamente a ri-sillabare forme di socialità da lungo tempo e per troppo lungo tempo dismesse. Forme più consapevoli della storia che viviamo e delle varie forme di umanità che l’attraversano, del contesto planetario in cui tutti ci troviamo e che in ogni momento ci interpella chiedendoci scelte di campo, coraggio e libertà di pensiero. Più spirito critico e meno cedimento alle lusinghe degli ilari governanti da cui siamo circondati. Chissà, forse anche con meno auto, con più solidarietà…..

Sapremo essere all’altezza del compito che ci attende? Antonio Gramsci, mutuandolo da Romain Rolland, parlava di un pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.  

Crediamoci!