di Francesco Carini. Dal blog Homo Sum

 

Anche se non si tratta di calunnia nel senso giuridico con cui lo si intende in Italia oggi, l’aria tratta dal primo atto dell’opera Il barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini è straordinariamente attuale, soprattutto considerando il meccanismo in grado di scatenare attraverso il web e i social (ma non solo) “fango virtuale” con cui si può ridicolizzare, distruggere la reputazione e, spesso, la vita di individui o gruppi, in particolare fra le fasce più deboli della popolazione, che non hanno né la forza economica, né quella mediatica o le conoscenze in grado di contrastare un fenomeno sempre più pericoloso e vario nelle sue sfaccettature, che arriva a scatenarsi senza vergogna anche su persone recentemente scomparse quali il direttore d’orchestra Ezio Bosso, affetto da una grave malattia neurodegenerativa.

In ambito micro, per restare nella sfera operistica, come già citato in un altro articolo, interessante, anche se molto triste, è l’esempio fornito dalla vicenda che vide coinvolta Doria Manfredi, raccontata splendidamente da Paolo Benvenuti nel film Puccini e la Fanciulla.
La ragazza, che lavorava a servizio di casa Puccini, poco più che ventenne, dopo aver scoperto per sbaglio una tresca fra il librettista del compositore e la figliastra Fosca, attraverso un meccanismo diffamatorio creato da quest’ultima e da sua madre Elvira (gelosa del marito), fu ricoperta di fango in modo preventivo e additata in paese (Torre del Lago) di essere l’amante dell’artista.
Dopo aver trascorso un periodo terribile, la giovane si uccise a 23 anni e, solo dopo la morte, ne fu constatata la totale estraneità ai fatti. Lo sdegno della comunità ci fu, ma arrivò troppo tardi.

Tornando per un istante all’opera di Rossini, si può dire che la storia di Doria, in parte, si sia conclusa con quanto profetizzato nell’ultima strofa della suddetta aria:

«E il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello, per gran sorte va a crepar».

Per quanto drammatico, questo è un esempio particolare, ma, allargando il discorso, potrebbe far riflettere come in soggetti fragili o comunque indifesi, indipendentemente dal sesso, davanti alla forza di piccoli potentati o dell’opinione della massaingiurie e diffamazioni costituiscono una potenza di fuoco spregevole e difficile da contrastare e, non di rado, presente in fenomeni come mobbing e straining.

Tale tecnica, perché di questo si può parlare data la raffinatezza e la perizia con cui la viltà umana può agire, è stata utilizzata anche contro le vittime di mafia, gente che ha combattuto e denunciato davvero il crimine organizzato. Per fare alcuni nomi, si possono citare: Pasquale Almerico (ucciso nel ’57 con 104 colpi di mitra, ma additato prima come soggetto con problemi psichici dopo essersi rifiutato per coscienza di scendere a patti con il mafioso Vanni Sacco), Peppino ImpastatoPippo Fava e Giancarlo Siani (sulle cui morti, in modo diverso, furono date e diffuse versioni che a vario titolo non rispondevano al vero, per la causa o per i moventi), non dimenticando il sindacalista Salvatore Carnevale, che, stando al racconto di Carlo Levi in Le parole sono pietre, era considerato da un giovane nobile siciliano un esaltato e un violento, dal momento che così ne aveva sentito parlare.

Dobbiamo coprirlo di ridicolo, in questa terra solo il ridicolo uccide.
Alberto Sordi in L’arte di arrangiarsi, di Luigi Zampa (1954)

Ma, a livello macro, la storia dell’umanità è piena episodi in cui il potere è stato capovolto o il tentativo di arrivarci è stato ostacolato o arrestato da fenomeni diffamatori e calunnie fatte circolare ad arte che hanno innescato processi utili a sedimentare privilegi già radicati e non permettere l’entrata in un determinato contesto, di qualsiasi tipo, o l’ascesa socio-economica di singoli e gruppi, fenomeno che non riguarda solo la sfera politica, bensì sociale (basti ricordare il meccanismo ben spiegato da Norbert Elias in Strategie dell’esclusione).

Fra i tanti esempi, viene in mente il meccanismo dell’avvelenamento dei pozzi che ha visto contrapposti nel nostro paese dalla prima industrializzazione settentrionali da un lato e meridionali dall’altro (e non dimentichiamo per un lungo periodo anche i veneti), con questi ultimi visti spesso come elementi molesti che non facevano altro che gravare sulle spalle delle istituzioni o dei lavoratori del Nord, rischiando di infittire le fila della criminalità.
Insulti ancor più gravi, arrivavano da stati esteri quali gli Stati Uniti d’America. Come riportato da Paola Casella in Hollywood Italian (e citato in questo articolo del 2018 di Homo Sum), il sociologo statunitense Edward Alsworth Ross così vedeva molti italiani che si imbarcavano dal porto di Napoli più di un secolo fa:

Fronti basse, bocche spalancate, menti sfuggenti, lineamenti plebei, facce storte, crani piccoli o bitorzoluti e teste senza nuca. Tipi come questi non potranno mai prendersi cura di sé in modo razionale.

Pertanto, parliamo di meccanismi in cui razzismoingiurie e diffamazioni si uniscono, riferendosi a individui o a popolazioni (che partono quasi sempre da situazioni di svantaggio), comprendendo potenzialmente milioni di persone e alimentando il fenomeno dell’invidia sociale o di un’inquietante guerra fra poveri.
Rispetto a qualche tempo fa, c’è più sensibilizzazione sul tema (es. vedesi le iniziative portate avanti dall’avv. Cathy La Torre), ma la strada é lunga e più che impervia. In occasione della Giornata mondiale delle telecomunicazioni e della società dell’informazione, che coincide con quella contro l’omofobia, l’avvocato Sonia Randazzo, esperta in diritti umani e membro di CLEDU (Clinica Legale per i Diritti Umani) operante a Palermo, fa una disamina ad ampio raggio, sotto il profilo giuridico, sui pericoli, in particolare legati al web, connessi ai fenomeni sopracitati.

Salve avvocato, cosa accomuna ingiuria, calunnia e diffamazione?

Medesimi sono gli oggetti di tutela delle tre fattispecie delittuose in questione:
– l’onore, id est il sentimento che l’individuo ha della propria dignità morale;
– il decoro, ossia quel complesso di qualità che determinano il valore sociale del soggetto;
– la reputazione, bene giuridico tutelato dallo Stato che si estrinseca nel diritto alla integrità morale individuato nella stima di cui l’individuo gode nell’ambiente sociale, con specifico riferimento ai principi di dignità, onestà e decoro professionale (Cass. Pen. Sez. V, n. 5945/1982).

In altre parole, la lesione dell’onore e del decoro consiste in una modificazione in peius della percezione che un soggetto ha di ; il danno alla reputazione, invece, lede il giudizio o la stima di cui l’individuo gode nell’ambiente sociale, con specifico riferimento ai principi di dignità ed onestà.

Sebbene, come visto, l’oggetto di tutela sia pressoché il medesimo, le tre fattispecie hanno modalità di condottaeffetti e sanzioni differenti.

Quali sono le differenze fra ingiuria, calunnia e diffamazione, sia a livello tecnico che di pene?

Il reato di ingiuria è stato depenalizzato dal decreto legislativo n. 7 del 2016; mentre calunnia e diffamazione sono delitti e, pertanto, rilevano sul pianopenale.

L’ingiuria (ora illecito civile sottoposto a sanzione pecuniaria da 200 euro a 12.000 euro), a seguito dell’abrogazione dell’articolo 594 del Codice penale ad opera del Decreto Legislativo n. 7/2016, è l’offesa recata all’onore e al decoro di una persona presente nel momento in cui viene posta in essere l’azione criminosa. Se la vittima si trova altrove non si può parlare di ingiuria.

Il reato di calunnia, disciplinato dall’art. 368 c.p., sanziona la condotta di chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad altra Autorità che abbia l’obbligo di riferire all’Autorità giudiziaria, incolpa di un reato una persona che egli sa essere innocente (c.d. calunnia formale), ovvero simula a carico dello stesso le tracce di un reato (c.d. calunnia reale).

La pena prevista per il reato base di calunnia è la reclusione da due a sei anni, con la previsione di circostanze aggravanti speciali ai commi 2 e 3 dell’art. 368. Requisito necessario per il perfezionamento del reato è la consapevolezza del soggetto agente sia della falsità delle accuse rivolte che dell’innocenza del soggetto passivo del reato (basta la denuncia o la querela).

Infine, il reato di diffamazione, così come disciplinato dall’art. 595 c.p., punisce una condotta offensiva dell’altrui reputazione posta in essere in maniera tale che la stessa venga percepita da più persone, seppure in assenza del diffamato.
La pena prevista è della reclusione fino a un anno o della multa fino a euro 1.032. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. Se l’offesa è recata a mezzo stampa o qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.

È proprio il requisito dell’assenza dell’offeso a determinare la maggiore gravità della diffamazione rispetto all’ingiuria, per la maggiore quantità ed estensione del danno e per la viltà e la particolare pericolosità del colpevole. L’offeso, in quanto assente, si trova in una posizione di svantaggio perché senza alcun diritto di reazione e difesa alle offese altrui.

Come si correla tecnicamente un reato quale la diffamazione con la diffusione dei social network?

Anche il diritto ha, ormai da qualche tempo, mosso i suoi passi all’interno di questo enorme contesto, tentando di disciplinare nuove fattispecie, ampliando e aggiornando i propri orizzonti.
Invero, dottrina e giurisprudenza, interrogandosi circa l’idoneità di uno spazio virtuale ad accogliere contenuti potenzialmente lesivi per l’altrui reputazione, hanno più volte rilevato l’applicabilità della disciplina della diffamazione anche a fatti commessi tramite Internet.
Oggi possiamo affermare con dubbio alcuno che l’utilizzo dei social networkintegra l’aggravante di cui al comma 3 dell’art.595 c.p.

La stessa Corte di Cassazione penale, attraverso la sentenza n. 24431/2015 emessa della sez. I, ha statuito che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”.

La giurisprudenza di merito ha, inoltre, affermato che “la pubblicazione di frasi o immagini diffamatorie sulla piattaforma social “Facebook” costituisce un ambito quantitativamente apprezzabile ed ampiamente sufficiente ad integrare l’elemento oggettivo del reato di diffamazione, il che vale a configurare l’ipotesi aggravata di cui al comma terzo dell’art. 595 c.p. poiché trattasi di condotta potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.” (cfr. Tribunale Pescara 05 marzo 2018 n. 652).

 

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17/05/2020 – © Francesco Carini – tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale.