di Marina Pagliaro e Marino Rinaldi

MESSINA. C’è un piccolo e desolato borgo dimenticato nel cuore ferito del waterfront cittadino, un agglomerato di baracche, detriti e sporcizia costruito sulla spiaggia di Messina, nei pressi del viale Gazzi: una delle poche zone abitate in un litorale per larghi tratti inaccessibile o ridotto in brandelli, caratterizzato da strade divelte, case e fabbriche fatte a pezzi, carcasse di automobili, macerie e immondizia.

Celata alla vista da una duna che protegge le catapecchie dal mare e dalle intemperie, la zona ospita una ventina di costruzioni in muratura ed eternit che fino al 2000 davano un tetto a circa 200 persone. Adesso, a vivere in condizioni estremamente disagiate, fra infiltrazioni d’acqua, muffa, ambienti insalubri e macerie, ci sono solo 8 nuclei familiari che attendono vanamente da decenni un alloggio degno di questo nome.

 

Camminando sulla spiaggia il piccolo “borgo” è come ne non esistesse. Né tantomeno è visibile dalla strada che conduce all’arenile, accessibile solo passando sotto un ponte alto poco più di un metro e mezzo che separa i capannoni industriali della Zir dal litorale. Qui, in uno scenario da quarto mondo, sorge un vero e proprio villaggio che, quasi fosse un fortino, viene colto in tutta la sua interezza soltanto dall’alto, salendo sulla “montagna” di sabbia che protegge la costituzione dalle intemperie e persino dall’occhio indiscreto delle barche.

 

 

Malgrado le condizioni interne della abitazioni siano persino peggiori di quanto appaia da fuori, le due famiglie italiane e i sei nuclei di extracomunitari attualmente residenti lì non si perdono d’animo. E continuano a lottare giorno dopo giorno con lo stato fatiscente delle abitazioni in cui vivono i loro figli, cercando di porre rimedio, per come possono, all’acqua che scorre dentro casa, al freddo e all’umidità che ha preso possesso dei muri.

 

 

Aziz, il patriarca di uno dei nuclei residenti, vive in quest’area da trent’anni. Nonostante il primo “alloggio” sia stato distrutto dalle fiamme sei anni fa, continua a rimanere sul litorale di Gazzi, in attesa che il Comune di Messina intervenga per garantirgli una abitazione diversa. Sembra però solo una speranza vana, considerando il fatto che la zona non rientra nemmeno nei sette ambiti di risanamento che l’Amministrazione intende sbaraccare.

L’attività che va per la maggiore, fra gli abitanti del rione, è quella della pesca, come testimoniano le numerose barche parcheggiate sulla battigia. Marcello, che di mestiere fa proprio il pescatore e in queste catapecchie ci è nato cinquant’anni fa, non solo è costretto ad affrontare giorno dopo giorno tutte le difficoltà che una condizione di questo tipo impone, ma spende ogni anno di tasca sua circa 500 euro per sistemare la “strada” di collegamento con la città, che sembra essere stata presa in pieno da un uragano, così come tutto l’ambiente circostante.

 

 

La convivenza fra le diverse etnie è pacifica. Insieme, mettendo da parte le differenze culturali e religiose, lottano per sopravvivere alle condizioni igieniche minime di quel luogo ameno, a pochi passi dalla “città”, in cui hanno realizzato anche un piccolo orto. Attorno a loro – uniche presenze umane in un litorale fantasma,  simili per certi versi a piccole formiche che fanno capolino in una natura morta – regna solo il più totale abbandono. 

Eppure, fino a qualche decennio fa, quella zona che non viene solcata dalle Caronti ospitava persino un lido, l’ ex “Sirena”, ultimo baluardo di civiltà prima che chilometri e chilometri di spiaggia venissero sepolti da copertoni, macchine bruciate e tonnellate di rifiuti, in un luogo che come un Giano bifronte mostra al contempo i suoi due differenti volti, separati solo dai binari della ferrovia: da una parte la meraviglia dello Stretto, dall’altra la desolante frattura fra la città e la sua “periferia” più estrema.

 

 

«Graduatorie? Una casa? Macché, qui siamo davvero abbandonati da dio e dagli uomini – racconta Marcello – sono nato qui cinquant’anni fa, morirò qui: figurati che qua non viene nessuno nemmeno in campagna elettorale, tanto siamo nascosti dal mondo», spiega, mentre indica con la mano la spiaggia. La sua casa, racconta, ha gli allacci abusivi ad acqua e fognatura, e sorge abusivamente sul demanio marittimo, ma ha un regolare contratto per l’energia elettrica. «Non ho internet, perché secondo il gestore avrei dovuto provvedere a spese mie per duecento metri di scavo e posa di cavi e pozzetti», dice ridendo.

Poi torna serio. «Io non chiedo niente a nessuno e non mi faccio illusioni. Niente che non mi spetti in quanto cittadino: una strada che non sembri bombardata – spiega indicando buche profonde un metro e mezzo da guadare con le auto per entrare e uscire – e due lampadine per non doverla percorrere completamente al buio quando i miei figli tornano a casa la sera. Basta, che di promesse ne ho sentite per una vita».

 

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