Fu dapprima il Fascismo a condurre ad alti livelli di efficacia retorica e demagogica la strategia di esaltazione del folklore come prassi non secondaria nell’elaborazione di mitologie populiste avvertite come funzionali all’esercizio del potere: il mito della campagna, dell’universo popolare, pastorale e contadino come luoghi di arcaiche età dell’oro che il regime si impegnava a restaurare. Sull’organizzazione del consenso nel regime fascista attraverso l’Opera Nazionale Dopolavoro (O.N.D.) e la politica di ricerca e di utilizzazione delle tradizioni popolari esistono ormai studi assai consolidati (uno per tutti, l’ampia rassegna di Roberto Cipriani, Cultura popolare e orientamenti ideologici, nel volume curato dallo stesso Sociologia della cultura popolare in Italia, Napoli, Liguori, 1979, pp. 13-57). Tutte le organizzazioni dopolavoristiche e folkloristiche vennero dal regime fascista piegate a propagandare il mito – fittizio – di un popolo sempre intento a cantare, danzare e dedicarsi ad attività ricreative. Il mondo del lavoro e le sue dure contraddizioni era escluso da tale visione idilliaca, in quanto una disamina concreta e realistica dei meccanismi di classe ad esso sottesi avrebbe messo in crisi quella rappresentazione edulcorata. Ma l’era fascista rappresenta solo uno dei momenti in cui folklore e politica vennero intrecciando, alquanto perversamente, le loro strade.

Detto in breve, la cultura popolare ha da sempre attirato i populisti. E non tanto perché questi ultimi si sentissero in qualche modo sintonici con essa, quanto piuttosto perché percepivano astutamente che avrebbero potuto strumentalizzarla piegandola ad instrumentum regni, a dispositivo in grado di attirare e coagulare consenso da parte dei suoi storici portatori. L’atteggiamento populista del XX secolo – dal Fascismo ai populismi successivi perduranti fino ad oggi – ricalca così, in qualche modo, la prassi ottocentesca, di stampo risorgimentale, del popolarismo romantico, allorquando il culto per le tradizioni popolari divenne, per la borghesia desiderosa di affrancarsi dal giogo delle monarchie europee per costruire i moderni stati nazionali, un utile strumento di propaganda che attingeva ad una improbabile “anima del popolo” vagheggiando mitiche età dell’oro e purezze di costumi che costituivano di fatto, a ben vedere, un’identità fittizia, pensata ideologicamente a tavolino e indirizzata ad affermare mitologie arcadiche valevoli a costituirsi patria elettiva di tutti gli scontenti dello status quo: una sorta di Et in Arcadia ego in cui annegare le delusioni della quotidianità e dotarsi di una solida camicia identitaria, ancorché fasulla.

Questa breve premessa giova a leggere meglio dentro alcune recenti iniziative di Cateno De Luca, il primo dei sindaci messinesi ad aver concepito addirittura un Assessorato con delega ad “Antichi mestieri e Tradizioni Popolari”, un sindaco che passeggia per i corridoi di Palazzo Zanca suonando la ciaramella, che si esibisce come ciaramiddaru nell’incontro con gli studenti di un Liceo, che promuove sfilate e manifestazioni incentrate sulle performances di suonatori tradizionali. A fronte, mi pare di dover osservare, di una città distratta che finora ha mostrato poco interesse verso tali forme di cultura anche quando esse venivano presentate nel modo più corretto, che è quello della ricerca scientifica e del recupero antropologico della memoria di tali realtà, come avviene nell’esemplare Museo di musica e cultura dei Peloritani di Gesso, ottimamente condotto dall’Associazione Kiklos e dall’etnomusicologo Mario Sarica.

Niente di tutto questo pare esser presente nelle politiche culturali dell’attuale Amministrazione Comunale, assumendo le iniziative sopra menzionate la mera caratteristica di un’identità, appunto, forzatamente riversata da un’esperienza personale (quella ciuminisàna – rispettabilissima – del Sindaco) a un’attonita Giunta costretta a dispiegare sul palcoscenico cittadino iniziative e forme di intrattenimento che vengono di fatto presentate come realtà impermeabili a tutte le altre istanze e forme di cultura espresse dalla società civile cittadina, in quanto in grado da sole di esprimere una forte cifra identitaria. Ma l’identità (non mi stancherò mai di ripeterlo) è sempre il frutto e il precipitato di dinamiche dialettiche non escludenti ma includenti. Mi viene da dire, sinteticamente, che senza identità non si vive ma di sola identità si muore.

Sull’identità siciliana e sui meccanismi che ne hanno determinato la costruzione non è ancora stato prodotto uno studio organico. Mi limito in questa sede a richiamare Leonardo SciasciaSicilia e sicilitudine, in Id., La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (ed. or.1970), adesso in Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 1987, pp. 961-967; John Dickie, Stereotipi di Sicilia, in F. Benigno, G. Giarrizzo (a cura di), Storia della Siciliavol. II, Dal Seicento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 101-112. Sull’identità in genere basti qui ricordare due bei contributi di un importante antropologo italiano, Francesco Remotti (Contro l’identità, Bari, Laterza, 1996 e L’ossessione identitaria, Bari, Laterza, 2010). Incoraggiare le identità locali può condurre, laddove tale incoraggiamento non venga accompagnato da una franca e democratica apertura al “mondo”, alla retorica delle Piccole Patrie, alla costruzione di identità monolitiche e fittizie, tutti elementi questi che stanno alla base della barbarie leghista.

L’identità di Messina è fatta al contempo di tradizioni popolari e di fermenti artistici contemporanei, si nutre tanto della Vara e delle cozze, della pignolata e della menza c’a panna, della Falce e della caccia al pesce spada, quanto di Santa Maria della Valle detta Badiazza, di Antonello e Caravaggio, della Factory di Linda Schipani, di Casa Cammarata, degli street artists che ci hanno negli ultimi anni regalato una delle poche novità degne di rilievo in città, le decorazioni delle pensiline alle fermate del tram. E di tante altre cose.

Senza contare che attraverso tali modalità di utilizzo delle tradizioni popolari si rischia di mortificare quella che mantiene ancora le caratteristiche di una cultura genuina, e non spuria (per usare termini resi noti dal linguista-antropologo Edward Sapir).

La cultura pastorale, della quale l’universo sonoro rimane una componente essenziale, è tuttora una cultura autentica, fiera dei propri codici comportamentali e delle forme, tanto del lavoro quanto del rito e della vita quotidiana, che ne definiscono l’identità. Può apparire, a uno sguardo distratto e urbanocentrico, una cultura muta e silenziosa, ma ciò accade solo perché i suoi ritmi sono scanditi da concezioni del mondo e della natura assai arcaici e distanti dal nostro qui e ora; e tuttavia persistenti, di gran lunga meno superficiali del chiacchiericcio cui la nostra frenetica vita associata ci ha resi assuefatti. La sopravvivenza di tale cultura consisterà probabilmente nel testimoniare di sé e della propria ricchezza senza però chiudersi nello splendido isolamento della nostalgia e dei languori da Mulino Bianco. Se non avessimo una Comunità Europea sorda e cieca rispetto alle molteplici identità dei Paesi membri, questa cultura sarebbe valorizzata e le sue dinamiche economiche incoraggiate e promosse, anziché frustrate da regolamenti redatti da ottusi burocrati.

Non mi pare che incoraggiare le sfilate di zampognari vada nella direzione di una valorizzazione dell’universo pastorale. Così come esse hanno avuto luogo, il rischio è che traccino un solco ancora più profondo tra nobili tradizioni ancora in grado di esprimere senso e nuovi legittimi e creativi filoni che la modernità ci consegna, relegando tali tradizioni a enclave simili a riserve indiane, in cui la fruizione di fatti ed eventi culturali aventi senso in contesti determinati si trasforma in fagocitazione onnivora di fenomeni pittoreschi praticata da turisti, o cittadini, annoiati e distratti.

È ancora presto per poter giudicare in modo chiaro e distinto sugli effetti che tali politiche potranno sortire su una città già di per sé priva di identità e di memoria.

A me pare di poter, provvisoriamente, rammentare il giudizio che Carlo Marx espresse sulla storia (“Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852).

Qui a Messina queste scimmiottature folkloristiche prima (durante il Fascismo) furono tragedia, adesso rischiano di essere nient’altro che farsa.

 

 

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Adolfo De Angeli
Adolfo De Angeli
20 Luglio 2020 12:44

La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa.