Esistono a Messina luoghi ancora caricati di aura, in grado cioè di esprimere e trasmettere a chi li visiti un sentimento identitario che ordinariamente è estraneo a quanti attraversino i paesaggi ormai piatti e banali di questa città.

Così è per Maregrosso. Se negli anni cinquanta-sessanta era costume comune a molti messinesi recarsi sul suo litorale per ricercare testimonianze numismatiche del passato che le frequenti mareggiate provvedevano a spiaggiare, e se per molti altri quell’area così periferica e fuori dai normali flussi cittadini era il luogo in cui si consumava il passaggio iniziatico della scoperta reale del sesso, a motivo delle numerose prostitute quivi operanti, bene, nel corso degli anni altre realtà sono venute a punteggiare la zona, dai mercatini del riuso e dell’antiquariato ai locali notturni e ai pubs alla moda agli spazi in cui nuove proposte artistiche e musicali vengono avanzate. Sarà per l’esistenza (divenuta resistenza) dei lacerti di Casa Cammarata, ancora in grado di impressionare i visitatori per la loro immaginifica ieraticità naif, sarà per un più antico Genius Loci che ancora avviluppa e permea di sé quegli spazi, sta di fatto che il loft- pensatoio- galleria d’arte di Vittorio Trimarchi, nel quale largo spazio è dato all’Art Brut e agli outsiders dell’ex Mandalari, e la Factory di Linda Schipani hanno sede in questa zona, formando con Casa Cammarata una sorta di triangolo magico. Un triangolo di meraviglie e di letture anticonformiste della realtà, del quale quasi sempre la città, perennemente occupata nei lugubri rituali dell’apparenza e del potere, rimane tristemente inconsapevole.

Linda Schipani è una giovane ingegnere proveniente da una famiglia di imprenditori della luce le cui installazioni hanno rischiarato Messina per decenni. Questa donna, apparentemente minuta e fragile, proprio dieci anni or sono ha concepito un’idea geniale, quella di ridare vita agli oggetti residuati dalle lavorazioni dell’industria di padre e zio e ancora presenti in enorme numero nei depositi della Ditta. Ha quindi invitato artisti messinesi a “trattare” tali oggetti riciclandoli e producendo con essi, e in essi, opere d’arte. Il risultato, clamoroso, viene oggi offerto alla fruizione in una splendida mostra – presso quel luogo immaginifico che è l’EcoLab di via Croce Rossa – riepilogativa dei dieci anni di attività, nel corso dei quali sono divenuti pezzi unici elementi modulari come bobine, sfere, pedane, plafoniere, lampade a bulbo, carte crespate, coppe, tubi, cilindri.

 

 

Che dire di Linda? Che è riuscita a offrire alla città di Messina un mirabile caleidoscopio di oggetti d’arte con una logica e una poetica che Marcel Duchamp e Jean Tinguely avrebbero senz’altro ammirato e condiviso.

Sono proprie all’attività di questa coraggiosa animatrice culturale alcune della caratteristiche che in genere sono neglette dall’arte paludata, quella “originata dalle accademie, dalla critica normativa e dal modello positivista della storia intesa come unità narrativa continua e romanzo familiare delle influenze” (Georges Didi-Huberman, Ex voto, 2007, 7-8).

Chi l’ha detto che dopo la morte non ci sia un’altra vita? Linda ci ha dimostrato esattamente il contrario, rivelandoci altresì che questa seconda vita è migliore, più libera e più coinvolgente della prima…

Le prime caratteristiche che balzano all’occhio sono infatti la capacità di recupero degli avanzi e l’utilizzo creativo di tutte le risorse disponibili.

Linda Schipani ha infatti ideato, prima ancora di promuovere, il mescolamento, a volte anche azzardato, di tutti gli oggetti presenti nella fabbrica di famiglia secondo criteri non usuali di assemblaggio, e da buona bricoleur quale ella è ha proposto e favorito (in ciò agendo da maieuta) la nascita di un nuovo manufatto utilizzando tutti gli elementi modulari disponibili e adottando procedimenti che agli occhi dei più non sarebbero stati considerati congrui. In tal modo Linda ha riscattato oggetti “morti” e condannati all’anonimato seriale conferendo loro una nuova esistenza, nella quale essi sono tornati a declinare senso.

Nella moderna museografia la seconda vita degli oggetti (poco importa se di natura artistica o etnografica) consiste nel loro essere trasferiti dall’originario contesto d’uso o di fruizione al nuovo contesto espositivo, testimoniando in tal modo di sé e della loro vita precedente. Non così per i manufatti di Linda, che acquistano nuova esistenza non in quanto esposti ma in quanto rifunzionalizzati, chiamati come essi sono a “significare” nella nuova veste di oggetti d’arredo, “artistici” in quanto frutto di una nuova messa in forma.

La filosofia del riciclo, e in particolare questa forma di riciclo creativo, mi pare in piena sintonia con le idee di quanti si interrogano sulle sorti di un pianeta come il nostro i cui abitanti appaiono come condannati alla coazione a consumare, smarrendo in tal modo qualunque memoria storica del proprio système des objets (Jean Baudrillard). Sotto tale profilo Linda Schipani mi pare costituire nel panorama della nostra città (che continuo a ritenere desolante) una delle voci più lucide che ci fanno intravedere gli esiti possibili di una “decrescita felice”.

Così operando, questo ingegnere carico di poesia ottiene infatti un riordino simbolico degli oggetti e del loro significato, riscoprendone certo nuove funzionalità ma, credo, anche e soprattutto una nuova dimensione estetica e poetica.

Per dovere di antropologo mi tocca qui menzionare ciò che Claude Lévi-Strauss scriveva sul bricolage in uno dei suoi libri più famosi (La pensée sauvage, Paris, Plon, 1962, trad. it. Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964, pp.30-31):

“Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati ma, a differenza dell’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime o di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè ad un insieme via, via “finito” di arnesi e materiali, peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni o di distruzioni precedenti. […] Il suo modo pratico di procedere è inizialmente retrospettivo: egli deve rivolgersi verso un insieme già costituito di utensili e di materiali, farne o rifarne l’inventario, e infine, soprattutto impegnare con esso una sorta di dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte le risposte che l’insieme può offrire al problema che gli vien posto.”

Se dovessi azzardare un giudizio sintetico, direi che l’attività di Linda Schipani pare essere una contestazione implicita delle regole ordinarie e degli schemi consolidati nel settore della produzione artistica. E, se mi è concesso, una contestazione esplicita delle regole ordinarie e degli schemi consolidati di un mercato dell’arte sempre più ottuso, spietato, cieco, a volte anche ridicolo.

Se la sua poetica sia, poi, anche un’etica, questo è un giudizio che lascio ai visitatori, spero numerosissimi, di questa bella mostra retrospettiva.

 

 

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Ornella
28 Novembre 2018 11:15

Il progetto e il respiro artistico che questo articolo conferisce alla sua storia evocano ricordi personali. Lavorava per gli Schipani, imprenditori della luce uno zio di mio marito. ne ho tanto sentito parlare, specialmente nei miei anni vissuti a Messina, dal 75 al 90. L’ingegnere Linda Schipani ha raccolto una grande eredità conferendole un tocco di magia femminile e di arte.