di Giovanni Quartarone

MESSINA. Collane di “zuccarate” adornavano il petto del piccolo bambino, ciambelle di biscotto croccante dolce “ca ciciulena”. Ah! Quant’erano prelibati i dolci dell’infanzia che al solo pensiero la mente si tempesta di ricordi, profumi e piccole cose buone e genuine. Tutto era senza malizia e una gioia semplice e pura colorava le nostre giornate. Dalla grande porta a vetri della “duccera”, la pasticcera del paese, si espandeva per la viuzza un cartello pubblicitario senza immagini né suoni era sufficiente respirare, inalare al passaggio gli aromi misti di cannella, mandorle tostate o gli olezzi di limoni o arance che si differivano nelle varie stagioni e festività per invogliarti all’acquisto. La signora “ciciulena” era la prima donna del periodo primaverile. In prossimità della Pasqua apriva le danze con le “zuccarate” tempestate a tutto tondo e nei “panini di cena”, chiamati così forse per un richiamo all’Ultima Cena, che anticipavano il culmine del dolce per eccellenza, non l’uovo con la sorpresa, il nostro dolce: “agneddu”. Un agnello infilzato, chino su se stesso, docile, con uno stendardo retto da un’asta ben ancorata alla schiena con impressa l’immagine solitamente di uno dei due putti della Madonna di Raffaello,  con in testa decori luccicanti, come i fili dell’albero di Natale, e tanti fiocchi e nastri colorati, impupato come i carrettini siciliani,  abilmente realizzato con pasta reale, quella pasta che avevamo già pregustato nella festa di novembre che puntualmente trovavamo la mattina del due, frutti di ogni specie, “i morticeddi” di pasta martorana. E’ primavera! La Pasqua è alle porte. Le rondini svolazzano, le campagne intorno sono variopinte. Le gemme si sono schiuse e i rami secchi dell’inverno trascorso si sono rivestiti di profumati fiori. Una settimana intensa di riti annualmente si propone con il primo giorno di festa: è il trionfo di Gesù, il suo ingresso nella città Santa. Tutti attorno gridano Osanna, Osanna e pure noi bambini lo facevamo, rappresentavamo questo grande giorno preludio della tristezza dei giorni in avanti. Il pomeriggio, intorno alle tre le campane della chiesa madre suonavano a festa. Con la palma o il ramo d’ulivo in mano benedetti la mattina attendavamo, con l’asino già bardato a festa, fuori della porta maggiore l’uscita du “Signuruzzu”. Era festa. In sacrestia intanto si preparava il bambino che doveva salire in groppa all’asino e fare cosi “il giro del santo”, con ai lati tutti i bambini del villaggio percorreva il percorso delle processioni, toccando tutti i quartieri del paese. Indossava una tunica rossa e bianca, solitamente quella dei chierichetti, in testa veniva posta l’aureola presa in prestito dalla statua del Gesù Risorto che attendeva la notte del Sabato Santo per uscire dall’armadio che lo custodiva tutto l’anno e un adulto dava le dritte al gesto che rigorosamente e interrottamente doveva compiere lungo il tragitto: benedire! La benedizione doveva essere cosi eseguita: il braccio destro doveva continuamente roteare su se stesso e la mano doveva tenere nascosti il piccolo mignolo con l’anulare mentre il medio e l’indice incollati e sostenuti dal possente pollice adagiato sul lato interno si ergevano benedicendo, simulando il gesto del Pantocratore che si erge nei rinomati templi di Monreale, della Cappella Palatina a Palermo, di Cefalù e financo a Messina . Tutto era pronto. Il piccolo veniva aiutato per salire sull’asino e attorno tutti cantavano, per tutto il tragitto, il seguente inno di buon auspicio:

Rama, rama aliva,

jetta l’alivi ‘nterra,

pi lu mali e pi lu beni

Santa Pasca ora veni

U Signuri mi ni drizza

mi ni manna na bona annata

pi la Santa Nunziata!

Al suo passaggio venivano offerti doni sia in denaro che in prelibatezze. Il più vistoso omaggio, la collana, era offerto da “Gianna Campolo”, il mini emporio con panificio annesso della piazza principale, dodici ciambelle  ricoperte con sesamo, la “ciciulena anzi detta” legate da una corda che passava per il centro del dolce biscottato, veniva  posto al collo. Anche per la festa del Santo Patrono, al suo passaggio, da quell’angolo veniva fatto scendere un angelo con un bouquet di fiori che offriva al Protettore. In due ore, prima della celebrazione pomeridiana, il corteo faceva rientro nella piazza della chiesa madre. Congedatisi tutti si dava inizio al mesto clima della Settimana Santa con la perduta rievocazione delle “Tre Marie” nel pomeriggio del Venerdì di Passione che giungevano con pianti e lamenti dalle Masse. Saranno passati vent’anni dall’ultima rievocazione anche per la mancanza di asini in paese. Le memorie scorrono in noi. Siamo i custodi di un tempo attraversato e capita, come è successo, che vengono da più parti tramandate. Così è stato, in contemporanea, senza alcun accordo che Mariagrazia, compagna di gioco e maestra giardiniera,  mi accennava che ai bambini della scuola materna parrocchiale aveva proposto, per impararla a memoria la canzoncina che facevamo da bambini per il pomeriggio della domenica delle Palme e la stessa cosa era stata fatta domenica scorsa con i bambini che si preparano per la prima comunione. Sarà questo, forse, un richiamo, un forte senso di appartenenza radicale al luogo e alle persone cui siamo legati e che pretende con la consapevolezza del tempo trascorso di dare un senso nuovo alle nostre tradizioni e riscoprire le profondità recondite, che vanno al di là della rappresentazione e che possono oggi, in questo tempo di disorientamento e paura, divenire l’humus su cui forgiare sani principi e sacri valori.

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