Di Sergio Todesco
Per elaborare un lutto non rimane che rifugiarsi nei ricordi, e quindi mi provo qui a ripercorrere i momenti nei quali la mia vita e quella di Myriam Beltrami si sono incontrate.
La vidi per la prima volta a Vulcano, biancovestita e ieratica come una profetessa, venuta ad assistere alla presentazione di un libro di Marilena Maffei che mi vedeva relatore. Si presentò, voleva conoscermi perché da lì a qualche giorno avrei dovuto recarmi in sopralluogo proprio a casa sua, al Raya, della cui esistenza io ero fino a quel momento ignaro. Qualche invidioso aveva segnalato alla Soprintendenza che deteneva preziose pitture su vetro siciliane, da sottoporre a tutela. Le spiegai che se era la legittima proprietaria di quei beni non aveva in ogni caso da temere, non essendo reato possedere oggetti d’arte. Visionati in seguito i materiali, mi accorsi che si trattava di pitture su vetro cinesi, in nessun modo rientranti nelle competenze proprie di una Sezione che era preposta alla tutela di cose siciliane. Durante quel secondo incontro mi accompagnò alla visita della sua creatura, il Raya appunto, un albergo diffuso dislocato in una delle aree più affascinanti dell’isola, illustrandomi la sua filosofia che consisteva nell’aver provato da decenni a ridefinire un angolo di mondo, la splendida Panarea, arricchendolo di un senso che, al di là dell’ovvio e più evidente aspetto mondano lei cercava di alimentare con una visione del mondo fatta di naturismo, attenzione alla cura degli alimenti, tutti frutto di colture biodinamiche, e al desiderio di fornire alla propria utenza, fatta in gran parte da persone del Jet Set, esperienze turistiche fuori dell’ordinario, basate su una spiritualità ayurvedica, volta a trascendere la visione imprenditoriale pure da lei efficacemente esercitata e mirante a creare un’oasi di benessere assai lontana dagli standard turistici offerti da altri.
Tornai da quell’incontro convinto di aver conosciuto una persona fuori dell’ordinario, che a dispetto dell’aura mondana e festaiola che i media le attribuivano perseguiva una sua personale utopia di bellezza e sintonia con il pianeta intero. Fu grande la mia sorpresa allorquando, dopo qualche mese, mi telefonò dicendomi che avrebbe gradito avermi suo ospite per qualche giorno al Raya insieme a mia moglie. E noi ci recammo una prima volta in quel paradiso, i cui costi non avremmo potuto permetterci di sostenere, pensando al capriccio di una donna desiderosa di confrontarsi con persone “normali”, assai diverse dal pubblico patinato che ordinariamente occupava le stanze del Resort, accorgendoci però assai presto che quella donna amava dialogare, confrontarsi, confidarsi senza le barriere del bon ton e delle convenzioni, mostrando sempre un’acutezza di mente e una freschezza intellettuale inconsuete in persone aduse a dialogare con tycoon, divi del cinema e della musica famosi in tutto il mondo, imprenditori, gente di potere e politici di ogni risma.
Ne risultò un’amicizia sincera, protrattasi nel tempo e fortificata attraverso i ripetuti inviti a tornare al Raya che puntualmente si susseguirono con cadenza annuale. Dalle conversazioni con Myriam appresi la sua storia, il suo arrivo nella Panarea degli anni sessanta insieme al compagno di una vita Paolo Tilche, valente sub e amatore di reperti archeologici, poi morto anzitempo, e la decisione di entrambi di acquistare ruderi lasciati in abbandono dagli emigranti per trasformarli in spazi ricettivi. Una sorta di gentrificazione ante litteram. Mi resi conto che quelle iniziative non erano state originate solo da desideri speculativi e da volontà affaristiche ma anche e soprattutto da un reale, progressivo innamoramento dell’isola accompagnato dal desiderio di renderla meno desertificata, più proiettata verso il mondo esterno e in grado di produrre benessere anche a quanti l’abitavano da sempre.
Era straordinaria Myriam. Aveva da tempo una sua seconda patria, l’Indonesia, da dove proveniva la gran parte degli arredi del Raya e dei suoi nuclei diffusi. A Bali e in chissà quanti altri luoghi continuava a svolgere attività di sostentamento in favore di decine di famiglie, e vi si recava periodicamente, forse per disintossicarsi del contatto con i potenti che ospitava nel suo albergo (e mai tale definizione, albergo, fu più inadeguata) e viceversa ricaricarsi vivendo a contatto con gli ultimi della terra, quelli cui cercava sempre di portare lavoro e opportunità di crescita.
Al Raya io e mia moglie, in seguito anche con qualcuno dei nostri figli, vivemmo sempre tenendo i contatti unicamente con Myriam e con il cordialissimo personale di cui si circondava, sentendoci per un verso dei parvenus, per altro verso dei privilegiati in forza del rapporto assai privilegiato che lei sempre volle intrattenere con noi, fatto di chiacchierate sui libri, sulle Eolie e le loro storie, sui fatti del mondo rispetto ai quali scoprivamo con sorpresa inaspettate sintonie. Ospiti non paganti per sua mai mutata decisione, non dovevamo “contaminarci” con gli altri ospiti (molto più in vista di noi, per fama e per denaro) ma dovevamo consumare i pasti con lei, con Robert l’amabile suo compagno e con lo staff, in un tavolo al quale solo qualche amica o amico di vecchia data venivano ammessi. Nel corso di una delle chiacchierate serali, tra l’una e l’altra delle vivande che ci venivano servite, seppi ad esempio che, avendo appreso che Flavio Briatore intendeva acquistare il Raya per trasformarlo in un Billionaire siciliano, questa donna si era rifiutata addirittura di riceverlo, rigettando in tal modo sdegnosamente le mirabolanti offerte che intendeva presentare.
Qualche volta venne a trovarci a casa nostra, transitando da Messina per una o l’altra delle tante traversie giudiziarie che la sua attività, e l’invidia di molti, le ponevano sul cammino. Venne anche, sempre ieratica e biancovestita, all’inaugurazione del Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, alla cui direzione ero stato preposto, senza avermelo prima detto e certa che la sua presenza mi avrebbe fatto piacere, muovendosi dalla sua Panarea fino a Mistretta. Adorava il mio Atlante dei Beni Etno-antropologici Eoliani e si deliziava a sentire che a mio parere, insieme a Francesco Alliata di Villafranca, lei avrebbe meritato il titolo di Tesoro Umano Vivente.
Io ricambiavo queste attenzioni e le sue ospitalità nell’unico modo che mi era possibile, donandole libri e oggetti d’affezione e fornendole, quando richiesti, consigli su iniziative da intraprendere per dotare il Raya di spazi di documentazione sull’Arcipelago in grado di controbilanciare l’inevitabile allure mondana dell’albergo, nel frattempo arricchitosi di una fascinosa boutique esotica e di una straordinaria Spa. Mi fece dunque grande piacere far dono a Myriam dei numerosi pannelli di grande formato contenenti centinaia di fotografie in bianco e nero sulle Eolie che tenevo in ufficio, donatimi anni prima da un’altra persona fuori del comune, il farmacista-fotografo Giulio Conti.
Si, era davvero speciale questa donna. Da giovane, bellissima, andava in giro vestita in modo tale che era impossibile non notarla. Amava far sapere che non indossava né reggiseno né mutandine, ritenendo tali capi superflui per il suo corpo. E anche quando l’età iniziò a lasciare segni sulla sua persona non dismise tale anticonformismo vestiario. Parlare con lei era saltare dalle filosofie orientali ai mezzi validi a biodinamizzare un alimento. Avendo poi trascorso più della metà della sua vita a Panarea (parlo degli anni ’80) Myriam era una meravigliosa affabulatrice di antiche storie isolane, come quella in cui, avendo lei raccolto da anziane donne del luogo centinaia di arcaiche formule magiche e incantatorie, tale prezioso quaderno di appunti le fosse stato sottratto, in una tragica notte da romanzo, da una giovane donna che le aveva arrecato innumerevoli sofferenze, ferendola financo negli affetti più cari…
Amava curare i fiori dei suoi giardini, amava intrattenere un’intera tavolata di commensali narrando le sue disavventure sentimentali e giudiziarie, amava far sentire chiunque come costui fosse, al pari di chiunque altro, persona preziosa e importante. Si indignava e si commuoveva con la medesima velocità e con la medesima passionalità, e mostrava di mantenere sempre fisso lo sguardo su realtà assai al di sopra dell’angolo di mondo che in quel momento la ospitava.
Adesso, novantaduenne ormai quasi priva della vista, Myriam è andata via. Si troverà già di certo in uno dei suoi universi, o forse sta chiedendo al Dio in cui crede di potersi reincarnare per poter tornare non già al suo Raya ma in mezzo agli ultimi della terra che nel corso della vita hanno costituito la sua più reale comunità.