MESSINA. Uscito lo scorso 14 gennaio, “Quello che so di te” è l’ultimo e più personale ed intenso libro di Nadia Terranova, che lo scorso 7 febbraio ha incontrato lettori e lettrici alla Libreria Feltrinelli. Al centro di tutto c’è infatti la bisnonna dell’autrice messinese, Venera, che fu ricoverata al Mandalari e la cui storia è entrata a far parte della mitologia della propria famiglia.Tra memorie tramandate, detti e non detti, le vicende della donna incombono sulla scrittrice al punto da visitarla in sogno. È così che, alla nascita della propria figlia, Nadia Terranova decide di indagarle per conoscere davvero la bisnonna e liberarsi dal fantasma della follia. La storia, dunque, viene esplorata attraverso i familiari, ma anche attraverso l’esplorazione dei luoghi e dei documenti d’archivio dell’ex manicomio.
L’intervista a Nadia Terranova
“Quello che so di te” è un libro sulla memoria e sul recupero della storia di una donna attraverso i familiari ma anche i luoghi in cui ha vissuto. Quanto è presente Messina?
«Si scrive con il proprio corpo, la propria nascita, le proprie esperienze. Messina è molto presente, come in tutti i miei libri, soprattutto attraverso un luogo specifico che è il Mandalari. Una struttura che ha cambiato luogo, nome e forma. È stato spostato trasformandosi nel tempo».
Qui ha indagato sulla figura di Venera, che ha avuto un forte impatto anche a distanza di generazioni.
«Le generazioni presenti in questo libro sono sei. È un libro anche su ciò che i nostri corpi portano in memoria di chi ci ha lasciati».
Come si è approcciata a temi delicati come quello della salute mentale, ma anche quello del pregiudizio di genere che, soprattutto in passato, ha portato molte donne ad essere considerate folli?
«Quello della salute mentale è un argomento spesso stigmatizzato, ma è uno stigma su cui si può lavorare proprio con la conoscenza, con la lettura e con la narrazione delle storie individuali. La reclusione femminile è qualcosa che ha fatto spesso parte della violenza maschile contro le donne. Negli anni del fascismo certe donne erano considerate donne da contenere e da isolare. In manicomio, oltre Venera, c’erano frodatrici della natalità, artiste, donne bizzarre, donne che non volevano figli, donne che volevano semplicemente vivere la propria vita. Venera non apparteneva a nessuna di queste categorie, era una donna a cui non era stato il tempo dell’elaborazione del lutto».
Cosa vorrebbe che rimanesse ai suoi lettori di questa storia così intensa?
«Vorrei che restasse un profondo turbamento, uno spiazzamento di fronte alle molte verità di questa storia. Non ce n’è una sola, così come non c’è un solo argomento, c’è la memoria dei corpi, le nostre costellazioni familiari, la riproposizione dei corpi nel tempo, la maternità come lente femminile per guardare la storia».

La copertina di “Quello che so di te” di Nadia Terranova