di Carmelo Celona
MESSINA. È il nome di una piazza, ma si intende un intero quartiere. Un rione che è un universo urbano autonomo. Piazza S. Vincenzo è un luogo che polarizza in modo estremamente identitario la vita di uno dei quartieri più funzionali della città. Un luogo di relazione per eccellenza. Si trova all’interno di un ambito urbano di buona qualità, vivibile e a misura d’uomo.
Un luogo dove vi è un equilibrato rapporto tra le quiete delle residenziali e le attività commerciali. Non è un quartiere di transito, è appartato ma è dentro la città. Un’area incastrata tra due fiumi (Il Trapani e il Boccetta), chiusa a monte dal muro della circonvallazione nel tratto di viale Regina Margherita e definito a valle dalla via Garibaldi, una delle arterie principali della città. Destinato in origine ad alloggi di edilizia economica nella parte bassa e popolare nella parte più alta, entrambe con la tipologia degli isolati a corte, ancor oggi conserva questa vocazione sociale.
Tutto il quartiere ruota intorno all’intimità della piazza, efficace spazio di socialità, che attrae tutto il carico antropico nonostante la vicinanza con la storica e ampia Piazza Casa Pia, li divide un isolato.
Perchè si chiama Piazza S. Vincenzo? Perché è un vuoto urbano, ricavato dal Piano Borzi, dopo il 1908, davanti al Bastione di San Vincenzo: una vestigia di quel potenziamento dell’antica cinta muraria realizzato da Carlo V D’Asburgo tra il 1536 e il 1538. Un baluardo posto a nord ovest della cinta medesima sul quale sorgeva lo strategico Castello di S. Vincenzo.
La ricorrente intitolazione al martire di Saragozza è dovuta alla presenza di un antico convento di monache, verosimilmente istituito già in epoca normanna, e del suo rinomato giardino. Questo spiega il toponimo. Probabilmente l’area aveva acquistato la sua ubertosa fertilità già con gli arabi che approfittando della prossimità del fiume Trapani e avvalendosi della loro innovative tecniche di coltivazione ne fecero un ameno luogo.
Piazza S. Vincenzo è una piazza intima, è lo spazio esterno di ogni abitante del quartiere. Uno spazio perimetrato da frondose alberature alla cui ombra scorre la vita di ognuno prima giocando da fanciulli e infine riposando sulle panchine da anziani. In quello spazio si sono succedute e si succedono intere generazioni che lì hanno costruito radici indelebili ed esclusive usanze, costumi, economie, identità culturali: un universo parallelo.
Ciò è potuto accadere grazie ad una concezione urbana ottimale che fa del quartiere una città nella città, attrezzata di tutte le funzioni e di tutti i servizi necessari per una vita a scala umana. Nel raggio di poche centinaia di metri si trovano scuole elementari, medie, superiori ed università, palasport, giardino pubblico, presidi militari, presidi sanitari e assistenziali e qualunque cosa serva di prima e seconda necessità. Oltre all’immancabile attuale supermercato abbondano i bar, le macellerie, i fruttivendoli, i panettieri, c’è la farmacia, la pasticceria, il tabacchino, il giornalaio, il fioraio, il fabbro, il barbiere, il parrucchiere, il negozio d’abbigliamento, il falegname, la cartoleria, la lavanderia, il ferramenta, il sarto, il calzolaio, il meccanico, il carrozziere, i negozi di tecnologia digitale, quelli etnici, etc.. Insomma, si può dire che non manca nulla, tutto ciò che serve è a portata di passo.
Un quartiere che resiste alla globalizzazione e conserva, quando serve, la sua intimità sociale appartata, pur essendo totalmente integrato alla città.
Dalla piazza, verso valle, dopo alcune decine di metri si raggiunge la via Garibaldi dove transitano quasi tutti i mezzi di trasporto pubblico ed è possibile imbarcarsi da e per qualsiasi destinazione urbana ed extraurbana. Un tempo c’erano le salumerie, quelle dei primi panini imbottiti, quelle dove il salumiere segnava e le massaie pagavano a fine del mese quando arrivavano gli stipendi dei mariti. E prima ancora c’erano i cinema di seconda visione e le osterie (“le putie del vino e di mangiare”), dove di giorno gli operai consumavano i pasti di lavoro e nel pomeriggio e la sera gli uomini trascorrevano il tempo libero, tra vino e partite a carte, come nei paesi d’un tempo. Gli uomini all’osteria, che stava sulla piazza, e le donne al mercato. Perchè c’era anche uno dei più importanti mercati della città. Un quartiere dove c’è tutto ciò che può essere utile per una vita urbana a misura d’uomo. Un quartiere che continua pienamente la sua millenaria tradizione di luogo capace di offrire ciò che si cerca.
Alcune fonti riportano che all’ingresso del rinomato giardino dell’antico monastero, ad anticipare le qualità botaniche e vegetali, e quelle di luogo ideale per lo spirito, campeggiava la seguente metaforica epigrafe: “Quod Quaeris vincto habes”. Ciò che cerchi qui lo troverai. Non a caso la sua via principale, quella che dalla piazza distribuisce la rete viaria che porta agli isolati destinati a residenza, si chiama “Via Quod Quaeris” (ciò che cerchi). Un’intitolazione incompleta, dovuta, forse, ad una frettolosa necessità di sintesi toponomastica, che appare come un plateale Genius loci scolpito.
Se il giardino ha segnato l’anima del quartiere, il monastero ha contribuito fortemente all’identità messinese, specie quella dolciaria. E’ noto che molti dolci siciliani nascono nelle cucine dei monasteri e spesso prendo il nome dal monastero stesso o fanno riferimento alla vita monastica, come la Frutta Martorana, che prende il nome dall’omonimo monastero palermitano o i Sospiri di Monaca, solo per fare qualche significativo esempio.
Sono le monache che ereditano la tradizione culinaria araba. Con l’arrivo dei normanni in Sicilia gli harem si svuotarono e molte donne che vi albergavano, per sfuggire al ludibrio morale della nuova visione spirituale, si convertono al cristianesimo ritirandosi nei nuovi monasteri cristiani, portando con loro tutti i segreti della cucina araba, specie quella delle leccornie.
Il toponimo di Piazza San Vincenzo è legato all’identità di Messina perché le monache del Monastero di S. Vincenzo di Messina hanno fornito alla città uno dei suoi più importanti e rinomati dolci tipici.
A loro si deve uno dei due più importanti dolci messinesi, il più antico, insieme alla Pignolata: Lo Nzuddu o gli Nzuddi. Si tratta di un biscotto da dessert totalmente autoctono. Tra i biscotti secchi siciliani è quello più raffinato sia per il gusto che per ingredienti e lavorazione. Un dolce così identitario che tradizionalmente si consumava, durate alla festa della patrona della città.
Quella di fare i biscotti è un’arte difficile e serve grande sapienza pasticciera. Gli Nzuddi sono un impasto composto da 4 parti di farina, 3 di zucchero, una parte di burro, una di uova, ammoniaca e vaniglia, farcito con mandorle (in quantità pari allo zucchero) precedentemente lessate. L’impasto viene stirato a nastro e tagliato in piccole porzioni che dopo cotte daranno un biscotto schiacciato dorato all’esterno. Più recente è la gioiosa versione bianca ricoperta di cannelli.
Questo biscotto non si è molto diffuso in Sicilia, si trova solo nella pasticceria catanese importato nel capoluogo etneo dal locale monastero di S. Vincenzo.
Nascendo dalle sapienti mani delle monache di San Vincenzo, questi biscotti non potevano non chiamarsi Vincenzini. Così buoni e raffinati trovarono presto il gradimento dei messinesi che li chiamarono: “Vincinzuddi”. Nome che, presto nella lingua parlata subì un’abbreviazione, venne eliminato il nome del santo, e i biscotti furono chiamati più laicamente: “Nzuddi”. Un biscotto rinomatissimo e insuperabile, soprattutto se intinto in un vino dolce siciliano come la Malvasia delle Lipari.
La tradizione messinese lo pretende a fine pasto durante i festeggiamenti della Madonna della Lettera, facendone un dolce devozionale. Esso viene distribuito in dono ai portatori del feretro della Madonna e a quelli che portano in processione la baratta del Vascelluzzo (Una funzione religiosa legata alla devozione della patrona della città).
Rubrica molto interessante, sarebbe bello se riprendesse in maniera regolare.