MESSINA. Si è svolta ieri pomeriggio, nella piazzetta accanto alla sede del comitato del candidato sindaco del centrosinistra Franco De Domenico, la tavola rotonda ‘Tessere trame di comunità‘, con la presentazione di un testo di Nicola Bozzo (in basso).
L’iniziativa ha avuto luogo a margine del sopralluogo fra le periferie degradate della zona sud a cui hanno preso parte, fra gli altri, De Domenico, il presidente della Commissione Antimafia all’Ars, Claudio Fava, i deputati nazionali Francesco D’Uva e Maria Flavia Timbro e il segretario provinciale di Art.1 Domenico Siracusano.

Di seguito il testo integrale:

Inizialmente la pandemia, adesso la guerra stanno ponendo l’umanità di fronte a una dimensione del tragico e dell’inaudito assolutamente inedita. Non credo che si possa parlare di una rivelazione dei nostri tratti morali ed esistenziali sia come singoli che come comunità. Si tratta di uno svelarsi di ciò che c’è già e che in situazioni estreme trova il modo di manifestarsi con un’intensità mai vista prima. Noi vediamo all’opera contemporaneamente forme di solidarietà estreme accompagnate ad espressioni di imbarbarimento, di primitivismo civico, di ritorno a una sorta di agghiacciante stato di natura animato da una lotta di tutti contro tutti. È pertanto la solidarietà il nostro tema dominante.

Ricordo una meravigliosa frase dell’Emilio di Rousseau, autore tra l’altro del Contratto sociale, dove si dice che la nostra comune condizione di mortali ci rende deboli e vicini. Insomma ci accomuna. La morte oggi, al contrario, non ci accomuna ma piuttosto ci dissolve. È un dato quasi tecnico per avere ragione. Un mezzo contabile. Ed ha ragione lo storico De Luna nel dire, oggi, che la negazione delle morti, la loro contabilità, è la prova di una morte collettiva. Non interessa nessuno. La morte è di chi nega e “ragiona” da vivo: cioè di chi nega e fa i conti. La morte di un minimo di ribellione alla morte.

Appunto, torna Rousseau (negato) la morte ridotta a faccenda privata di chi muore. Non come criterio di qualcosa di comune. Di un debito reciproco. Di una responsabilità.

In questo quadro assai generale può dirsi che la città è l’ultimo spazio pubblico dove i principi (diritti, giustizia, umanesimo) diventano visione e sguardo di altre persone o non-persone. Si incarnano in un altro prossimo, proprio nel senso spaziale. Nella città il bene comune non è un concetto ma un’esperienza. Nei grandi spazi lo sguardo cede il posto al diritto. Il nostro rispetto, in queste dimensioni, si realizza riconoscendo i diritti. Nella città si realizza la singolare composizione di universale e particolare. Di principi e di carne concreta. Per questo aumenta la responsabilità anche individuale. Per questo la città è la misura più veritiera delle evoluzioni o involuzioni del senso comune. Certo che l’espressione comunità è assai controversa ed ha in qualche modo veicolato concezioni autoritarie ed escludenti – perfino tragiche – così come ha ispirato reciproco riconoscimento e mutualismo. Bisogna certamente marcare l’assoluta distanza con ogni forma di comunitarismo di tipo identitario, etnico, culturale in senso regressivo, cioè come dominio illiberale di una sola forma di buona vita ammessa. Ciò che del termine comunità, invece, occorre valorizzare, sta addirittura nella stessa origine linguistica del termine, composto da ‘cum’ e ‘munus’, cioè dall’idea di riconoscersi e donarsi comuni responsabilità e comuni doveri. Cioè dar vita a una comunità di liberi e eguali che, con pari dignità e pari responsabilità, esplorano il mondo.

In fondo in questa accezione vi è un’assonanza col termine Repubblica nel senso in cui è inteso per esempio dal filosofo Jürgen Habermas, la Repubblica come spazio comune in alternativa a tutte le fondazioni etniche di presunta omogeneità culturale, di nazionalità intesa in modo naturalistico, di omogeneità sociale come annullamento delle differenze. Punto essenziale di questo modo di intendere la comunità, diviene dunque la persona, la sua unicità, la sua costruzione comune insieme ad altre persone altrettanto singolari e irriducibili. Anzi può dirsi che la città comunità così intesa, non solo consente l’espressione e la manifestazione della persona, ma che la richiede, la esige come proprio alimento, come propria radice fondativa, senza la quale il corpo comune si necrofizza.

Bisogna, certo, considerare la gigantesca crisi economica e sociale degli ultimi, almeno, vent’anni.

L’abbandono di una serie di garanzie e tutele che avevano caratterizzato lo stato sociale europeo dal dopoguerra agli anni ottanta; l’affermarsi di un fondamentalismo del mercato come unico strumento di regolazione sociale; la costruzione ideologica di un modello antropologico di uomo come individuo avulso e sradicato da ogni contesto e semplice accumulatore di ricchezza, successo personale e beni privati; la non compiuta edificazione di poteri post-nazionali, democraticamente legittimati. Tutto questo sinteticamente ricordato non è certamente indifferente per il nostro tema. Milioni di uomini in Europa sono stati sospinti a forme di deprivazione economica e sociale, ma anche a forme di spoliazione umana ed esistenziale, perché, in una società che sacralizza il successo individuale, si tratta di perdenti, di sconfitti, di scarti e quindi anche le misure deboli di welfare hanno più un sapore paternalistico e compassionevole che il riconoscimento di universali diritti di cittadinanza.

La dignità, certo, non si esaurisce nei diritti, ma essere titolari di diritti permette quella stima di sé nelle relazioni sociali. Tutto ciò, naturalmente, ‘destruttura dall’interno’ ogni solidarietà di comunità ed esalta, al contrario, ogni possibile accentuazione di forme di totale privatismo, disincanto, cinismo. Del resto, per cogliere con un riferimento oggettivo la profondità di questa crisi, basti vedere la percentuale di astensionismo in Italia e in tutta Europa (riferendoci a noi il 50% di astensionismo nelle ultime due consultazioni amministrative) che non pone soltanto un problema di crisi di rappresentanza politica, ma segna appunto un dissolvimento del mondo comune, l’esaurimento di una forma di integrazione sociale attraverso la cittadinanza democratica.

Mi viene in mente un’espressione che nella storia delle idee ha assunto una valenza simbolica che va oltre lo specifico fatto storico. Si tratta della Repubblica di Weimar. Lì, in quel caso, all’alba del nazismo, le forze politiche razionaliste e classiche (i socialdemocratici ed i cristiano sociali) scrissero un’avanzatissima costituzione. Tuttavia quello che non si comprese fu il fatto che in ragione dell’umiliazione tedesca dopo la prima guerra mondiale, a causa della disoccupazione di massa, della iperinflazione, già si era compiuto il dissolvimento di una forma razionale e statale e tutto ciò poi portò alla tragedia del novecento che conosciamo.

Naturalmente non voglio dire che siamo agli esordi di un nuovo nazismo. Uso infatti questa espressione in modo metaforico, come simbolo di una crisi sistemica dei meccanismi di integrazione sociale nella rottura di una coesione collettiva che è chiara nel fondo di una comunità e che se non colta, poi sorprende tutti coloro che si erano attardati nella meccanica riproposizione di metodi e di stile politico che ormai avevano perso la loro ragion d’essere. Oggi, si parla infatti dei barbari come appunto qualcosa di quasi sconosciuto e di estraneo che poi si manifesta in forme del tutto incomprensibili secondo categorie consolidate, quasi fosse un miracolo al contrario, un miracolo del diavolo. E invece non si tratta di ciò che era esterno o estraneo, ma di ciò che maturava con una inflessibile logica dentro il cuore delle nostre comunità. Non un dissolvimento dall’esterno, ma un auto-dissolvimento.

Nella città di Messina queste dinamiche e questi processi – moltiplicati per l’impatto sociale della pandemia – è possibile osservarli e viverli in tutta la loro gravità e intensità. Può dirsi che si tratta di un lungo processo storico. Infatti lo stato sociale da noi ha assunto sempre i caratteri di stato assistenziale.

L’uso spregiudicato della spesa pubblica, appartenenze neo-feudali, pubblico impiego come ammortizzatore sociale, hanno da un lato permesso un minimo di tenuta sociale, ma anche incrinato il senso profondo della modernità intesa come universalità di diritti e doveri di cittadinanza, imparzialità delle istituzioni pubbliche, un certo uso pubblico della ragione, autonomia delle professioni e delle imprese dal poter politico e non capitalismo assistito. Insomma quel tessuto connettivo che comunemente si intende come società civile moderna. Con la fine di questo assetto, con l’affermarsi pieno della globalizzazione, con la crisi dello stato nazione, si è direttamente transitati in una dimensione post-moderna, con l’emergere di forme sempre più acute di deprivazione economico-sociale, di crisi delle risposte pubbliche. Insomma ha preso consistenza e corpo un vero e proprio sradicamento sociale ed esistenziale che costituisce il terreno ideale più felice per ogni sorta di avventurismo politico: è questa insomma la precondizione di ogni forma di populismo. In sostanza una nuova trama comunitaria e civica può solo nascere da una riconsiderazione della assoluta centralità della questione urbana come questione eminentemente sociale. E aggiungo, la questione urbana così intesa come tema nazionale ed europeo.

Non si può invocare un civismo armonico e un po’ irenico se non passando dalla prova di fuoco della periferia come categoria insieme simbolica e concreta, come la carne viva e ferita della città. Quella prossimità di sguardo di cui si diceva prima, può sollecitare una idea originale e tutta da definire di welfare urbano. Infatti da un lato non possiamo minimamente recedere dal lavorare su vasta scala nazionale ed europea per una stagione nuova dei diritti sociali come diritti universali e garantiti dal pubblico (occorrono, quindi, forze politiche pienamente nazionali ed europee, altro che vandee indipendentiste), ma proprio nelle città su questa premessa si devono innestare tutte quelle esperienze di attivismo civile, di protagonismo diffuso che saldino in un’unica dimensione i diritti sociali con il riconoscimento della persona, con la cura, con l’animazione dei territori, con tutto quel di più che la prossimità di sguardo e direi la coesistenza può assicurare alle garanzie e tutele pubbliche.

È proprio l’espressione dignità che può funzionare da ponte ideale tra la dimensione giuridica dei diritti e la loro consistenza sociale ed esistenziale. Perché nell’idea di dignità si inscrive non una sorta di attributo metafisico inattingibile, ma piuttosto una richiesta di riconoscimento e di attenzione, di essere visto appunto, di non trasformarsi in un cliente anonimo delle burocrazie di welfare. In questo senso, la dignità è una figura eminentemente relazionale. È il riconoscimento o il misconoscimento di sé nella dimensione sociale, nel momento, cioè, in cui ciascuno si espone all’altro, non a caso la Costituzione Italiana fa espresso riferimento alla pari dignità sociale, non quindi riferita a un uomo astratto, ma a un uomo concreto e situato nella infinita trama delle proprie relazioni.

Pensare insomma ai diritti non come dei segmenti staccati di individui isolati, ma come a una costellazione che attorno al riconoscimento formale e specifico del diritto, muove tutta la segreta ricchezza della relazione personale e della solidarietà come forma di vita, come esperienza. Si può così cogliere nella sua essenza il principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale, non inteso come un recedere del pubblico, in un quadro di smobilitazione ed abbandono “compensato” dal privato sociale, in forme fatalmente deboli e surrogatorie. Ma come un nuovo patto tra istituzione e comunità, per un’idea di pubblico che trascende lo statale o l’istituzionale e si diffonde in forme contagiose nel tessuto concreto, nella concretezza delle relazioni che diviene appunto la forma sociale della cittadinanza e non cittadinanza come pura ascrizione astratta di diritti ed obblighi.

E questo permette di spostare il centro del discorso dalla pura tutela alla promozione della soggettività delle persone come attivazione di capacità, abilità, risorse che trascendono la pura dimensione della protezione e si iscrivono in una nuova tessitura civile.

Insomma, la città è principalmente una formazione sociale. La dignità della persona spesso usata in modo confuso e retorico, va in qualche modo meglio esplorata, come scrisse Simone Weil, una delle più originali e sensibili pensatrici del novecento “ciò che è sacro in un uomo non è la persona, cioè un concetto, bensì l’individuo nella sua interezza: braccia, occhi, pensieri e quel «qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano» che «si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male»”. In sostanza, voleva così dirsi che non si può mai legare la dignità a un’idea di capacità, di qualità, di capacità d’azione, ma, viceversa, la dignità personale prescinde da tutto questo, risiede nel fondo oscuro del puro vivere e a questo deve corrispondere un nostro obbligo verso l’essere umano in quanto tale.

Insomma, si tratta di andare oltre una certa idea dell’uomo che, muovendo dall’umanesimo passa per le rivoluzioni del ‘700, inteso come soggettività attiva, capacità di realizzazione, in qualche modo potenza. Un umanesimo contemporaneo deve ribaltare i termini e muovere da un’idea dell’uomo come vulnerabilità, come silenzio, perfino come sconfitta. Però, nello stesso tempo, non può rinunciarsi all’idea della persona come espressione dell’aspirazione a una vita dignitosa, ad una vita buona come fioritura delle proprie qualità intrinsecamente umane, della propria realizzazione.

Si discorre anche molto di bene comune, per ora, si tratta di un’idea molto contigua a quello che si sta dicendo. È un concetto aristotelico, quello della buona vita nella polis come realizzazione della propria natura umana, come fioritura della propria virtù. Naturalmente tutto va riproposto in una luce contemporanea. Non disponiamo più di un concetto di natura umana come quello della metafisica greca o di quella cristiana, però possiamo declinare l’idea di bene comune come aspirazione a scrivere la propria storia in rapporti di riconoscimento con gli altri e quindi un’idea di comune come dimensione necessaria per poter articolare e sviluppare la propria esistenza. Questa è la città. Potrebbe dirsi come scrive il filosofo Paul Ricoeur “una buona vita con e per gli altri dentro istituzioni giuste”.

Nella nostra città, negli ultimi tempi, sfruttando anche il coronavirus si è ritenuto che le lacerazioni sociali costituissero un’occasione irripetibile per la costruzione di una volontaria e deliberata strategia di successo politico cinica e in qualche modo lucida che affondava le sue radici in quel coacervo di paura, passione, ignoranza, eccesso, perdita della ragione che si muove nel fondo di una comunità. L’angoscia collettiva è divenuta strumento di manipolazione politica e di costruzione del consenso. La prima mossa è stata quella di costruire un campo comunicativo totalmente strutturato sull’antitesi tra amico e nemico.

C’è sempre, ad ogni istante, un nemico da esibire responsabile della vita e della morte dei cittadini, tanto distante quanto feroce e questi nemici immaginari, talvolta fragili come un venditore ambulante, o forti come un ministro, divengono l’oggetto su cui concentrare la paura fatta lievitare e trasformata in odio. Un odio che ha qualcosa di primitivo e ancestrale, cioè non legato soltanto all’emergenza del coronavirus, ma legato alla propria condizione sociale, esistenziale, individuale. Alla propria frustrazione; perfino legato alla insopportabilità della propria esistenza. Le vere ragioni di questa condizione o di queste condizioni sono occultate o rimosse. C’è un nemico apparente che incarna tutte le colpe della propria miseria contro cui sputare in quella sorta di anonimato di massa che garantisce la rete, salvo trovarsi un istante dopo nella stessa condizione di prima. Tutto questo può svolgersi e realizzarsi pienamente in una città che in fondo costituisce un ‘non luogo’. Ovviamente l’avversario politico è il nemico. Ma anche il sostenitore non può destreggiarsi in sottigliezze e distinguo. No, egli deve assumere il peso della piena responsabilità di miles, di soldato. Ogni cautela è una diserzione. Ecco qui come affiora il tratto ovviamente implicito al paradigma, cioè la natura totale del potere, nel senso che non permette spaziature, distanze, articolazioni, singolarità, ma o l’adesione apologetica o il rifiuto considerato “empio e colpevole”.

La perenne luce deve avvolgere l’eroe-politico, la sua continua fruizione, il suo essere accesso permanente, il furore di questo eterno giorno senza ombre. Lì l’eroepolitico annulla il polo del notturno, come i grandi centri commerciali e in genere i negozi in cui la merce è sempre viva e presente, illuminata e mai sottratta al suo pubblico. Dovrà essere sempre più chiaro, in questi giorni, che da una parte si deve il proprio ossessivo potere proprio ad una città dissolta, frantumata, ridotta a solitudine e sfinimento. Di questo ci si nutre. Se si riflette bene, si tratta di un principio parassitario. Con questo intendo che questo tipo di potere che abbiamo sperimentato si nutre della guerra e del conflitto, del reciproco misconoscimento, dell’incenerirsi di ogni forma di solidarietà. Si nutre di un pubblico sradicato e interconnesso che trasforma in adulazione la propria impotenza. La parola stessa, il linguaggio smarrisce il suo senso originario di comunicazione e di amicizia, divenendo corpo contundente, freccia insanguinata, delazione da lettera anonima, distruzione del prossimo. Deve essere chiaro, dunque, che non andiamo incontro a una qualunque ordinaria competizione elettorale. In gioco c’è molto di più e ritengo un qualcosa di decisivo, ossia la possibilità, da un lato di ritessere, di unire, di ordire trame di relazione e di incontro, di solidarietà e di affermazione della persona e della sua dignità. Dall’altro, lo spettro, purtroppo concreto, di un totale dissolvimento del vivere insieme, quasi una riproposizione di uno stato di natura hobbesiano costituito da una lotta incessante di tutti contro tutti. E trovo scandaloso che proprio nel momento in cui la guerra si ripropone nel cuore dell’Europa, il codice di violenza, di disprezzo e di negazione che sta al fondo della guerra divenga la forma attraverso cui si vorrebbe trasfigurare il nostro vivere in comune.

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