L’estrema limitazione della possibilità di muoversi, dai grandi viaggi alla semplice gita fuori porta, è senza dubbio uno dei tanti modi in cui l’epidemia da Covid-19 ha cambiato le nostre vite. Intendiamoci, si tratta di piccoli sacrifici, rispetto al prezzo drammatico che in tante e tanti stanno pagando in tutto il mondo. Ma al tempo stesso questo è, forse, uno dei cambiamenti più diretti e per certi versi travolgenti che abbiano mai colpito, in maniera indiscriminata, la nostra quotidianità.

Per quanto mi riguarda, questa impossibilità di muoversi, com’era prevedibile, non ha fatto altro che alimentare la mia voglia di viaggiare. Ne parlavo con degli amici qualche giorno fa: dei viaggi, più che altro di carattere lavorativo, che abbiamo dovuto rimandare in queste settimane e di quelli che non abbiamo potuto nemmeno pianificare. Mi ero finalmente deciso a buttarmi a capofitto alla scoperta di Tanzania e Uganda. Ma sarà per un’altra volta.

E, chiuso tra le mura di casa, balcone e spesa a parte, mi sono scoperto a viaggiare con l’olfatto.

 

 

Mentre pensavo alla Tanzania, infatti, paese di cui mi hanno sempre attirato i paesaggi, la natura sconfinata e la potenza di alcuni luoghi (tra tutti, il Kilimangiaro), istintivamente mi sono ritrovato a immaginarne gli odori. Stupito, ho cominciato a saltare da odori immaginati a odori vissuti, e così da un odore all’altro nella mia memoria, richiamandoli con forza e riuscendo quasi a riviverli. Non era la prima volta che mi accadeva: da sempre ho ritenuto gli odori la componente più autentica e profonda dei miei ricordi, anche di viaggio, ma mai erano riusciti a evocare un tale senso di libertà e di fuga come in questo particolare momento.

Immaginare odori nuovi, ripercorrere quelli conosciuti, di luoghi vicini e lontani: non mi spingerò tanto in là da dire che sia un po’ come viaggiare. Ma insomma, tanto male non è.

Uno dei primi odori ad essermi tornato in mente è quello dei mercati e del cibo di strada di alcune grandi città del Sudamerica, il mio luogo del cuore per definizione. La frittura di alcune strade del cuore di Quito, città con uno dei centri storici coloniali più grandi e più belli (vivo, vero, mai posticcio) di tutta l’America Latina, dove un aroma essenzialmente dolciastro si mischia agli odori della città, amplificati da quell’altitudine (oltre i 2.800 metri) che nei primi giorni non ti fa quasi respirare e che apre i polmoni all’inverosimile. Mentre mi trovavo lì, questa sensazione di odori forti e penetranti, aumentati dall’altitudine – a Quito come al mercato di Otavalo, un centinaio di chilometri più a nord – mi ricordava Bogotà (2.600 metri sul livello del mare), e dove invece l’odore caratteristico era quello delle arepas, focaccine cotte su piastre portatili ad ogni angolo della città, ogni giorno, all’imbrunire, e servite spesso con un po’ di formaggio locale. E quello dei succhi e concentrati di frutta fresca, che avvolgevano strade intere, soprattutto quelli più intensi, come quello di guanábana, uno dei miei preferiti.

 

 

In questo senso, Santiago del Cile non è da meno. Il mercato de La Vega, nel barrio della Recoleta, non è dei più turistici. Eppure è uno dei luoghi che ricordo meglio di tutto quel viaggio, con quei banchi di frutta, verdura, carne, cibo di ogni tipo, tanti prodotti sconosciuti e tanta gente ammassata (fa un certo effetto pensare a queste scene, oggi) a comprare, assaggiare, bere, mangiare e socializzare. Dentro e fuori, nelle strade attorno che non sono altro che una propagazione del mercato stesso.

Restando in tema di mercati e di grandi città sudamericane, nel Mercado Modelo di “Be Agá” (la pronuncia portoghese delle lettere B e H, nonché forma abbreviata comunemente usata per indicare la città brasiliana di Belo Horizonte) diventa dominante l’odore di birra, spiedini di carne alla griglia e chachaça – che, per chi non lo sapesse, è un’acquavite a base di succo di canna da zucchero; la base della caipirinha, per intenderci. Banconi enormi, piccoli baretti, gente dovunque. Qui ho mangiato per la prima volta uno dei piatti più buoni e più pesanti di sempre: il feijão tropeiro, che, tra riso, fagioli, carne, farina di manioca e un uovo fritto sopra tutto questo, fa apparire la famosa fagiolata brasiliana uno snack leggero, a confronto.

 

Banchetto di succhi naturali in Colombia

 

D’accordo, ammetto che una gran parte dei miei odori di viaggio preferiti hanno a che vedere con il cibo. E un altro esempio, meno esotico ma non per questo meno pregnante, almeno per me, è quello delle strade di Braga, cittadina barocca nel nord del Portogallo, dominate, soprattutto nelle giornate del fine settimana, da un forte aroma di carne alla brace (il churrasco), proveniente dai tantissimi ristoranti disseminati soprattutto lungo l’asse che dalla stazione dei treni attraversa tutto il centro storico per poi condurre al campus universitario. Mi è impossibile, oggi, sentire nell’aria un certo odore di carne alla brace, senza essere catapultato con l’immaginazione nelle strade di Braga.

 

Mercato di Otavalo, Ecuador

 

Ma la verità è che questa funzione meravigliosa degli odori, questa capacità che hanno non solo di farmi ricordare certe esperienze ma realmente di riportarmi a viverle, ne abbraccia anche alcuni decisamente meno piacevoli e, per certi versi, meno nobili.

Così mi capita con gli odori di certe metropolitane, ad esempio quelle di Berlino e Parigi. Profondamente diversi, e così chiaramente riconoscibili per chi ha passato un po’ di tempo in entrambe le città. O, toccando un terreno scivoloso da un punto di vista eco-politico – nel quale, però, eviterò di addentrarmi in questa sede – quello del cherosene degli aerei, che al di là del suo essere gradevole o meno, richiama così istintivamente per me l’idea del viaggio, del movimento, fossero anche quei due giorni trascorsi a una conferenza in qualche città europea. Non so, forse a pochi altri farà questo effetto (per me, specificamente, rievoca la sensazione di essere su un bus aeroportuale di Fiumicino), ma chissà quanti altri odori, aromi, profumi o persino lezzi evocano il viaggio, in ciascuno e ciascuna di voi.

Ed è un po’ una catena, che ti fa saltare di odore in odore, di viaggio in viaggio.

 

Una via del centro storico di Quito

 

Così, questa parentesi su odori antropici e inquinanti mi riporta in Sudamerica (ma no!) e alle strade di Recife, nella prima notte latinoamericana di tutta la mia vita. Ricordo che, a sua volta, mi suggerisce quello, successivo di qualche giorno, delle infinite distese di canna da zucchero nel Pernambuco, nel periodo della mietitura. Un odore intensissimo e sparso nell’area per decine di chilometri, sfondo del viaggio verso il sertão (le regioni aride del nord-est brasiliano) e, di lì, Bahía e un altro odore particolarissimo, quello della Mata Atlântica, l’immensa e fitta foresta che corre lungo tutto la costa brasiliana, aprendosi qua e là su piccole spiagge nascoste.

E c’è infine un ultimo odore, naturale, che mi va di condividere. E che mi viene di definire ‘assoluto’. Forse il più difficile da spiegare, ma anch’esso, come le più banali metropolitane di Berlino e Parigi, abbastanza chiaro per chi lo ha già sentito qualche volta nella sua vita. L’odore del ghiaccio. Quello che senti sulla cima di un vulcano inattivo a cinquemila metri (il Chimborazo, in Ecuador) o tra i ghiacciai blu della Patagonia. Forse uno degli odori più difficili da evocare, ma, proprio per questo, uno dei più preziosi da custodire.

 

Il ghiacciaio Spegazzini, Patagonia argentina

 

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