MESSINA. «A Messina abbiamo già suonato varie volte in passato, a partire dal lontano 1972. Ho un bellissimo legame con la città, grazie soprattutto al mio amico e vicino di casa Togo (noto pittore messinese, ndr), con il quale sono stato più volte in vacanza in riva allo Stretto e a Giampilieri».

Patrick Djivas, classe 1947, fra i fondatori degli Area (leggendaria band di Demetrio Stratos), è dal 1973 uno dei componenti storici della Premiata Forneria Marconi, gruppo progressive rock che il prossimo 3 ottobre presenterà al pubblico dell’Arena di Villa Dante i brani più significativi di cinquant’anni di carriera: dai primi successi del 1971 alle ultime hit, con una parentesi sull’immortale tour con Fabrizio De André del 1978. Mezzo secolo di sperimentazione, ricerca, grande musica e tour mondiali (dal Giappone al Canada) che il bassista di origini francesi ripercorre nel corso di una lunga intervista telefonica. Fra ricordi, aneddoti, riflessioni e una passione viscerale per il suo mestiere che non accenna a scemare. Malgrado i talent, il monopolio di You Tube, le difficoltà dettate dalla Covid e i cambiamenti che negli anni hanno stravolto il modo di approcciarsi alla musica.

 

 

Nel 2019 avete fatto oltre 100 concerti. Come avete affrontato la pausa forzata durante il lockdown e quali sono i progetti per il futuro? 

«Nessuno sarebbe mai riuscito nemmeno a concepire quello che è accaduto quest’anno. Purtroppo non siamo riusciti a finire la tournée, con tre date che se tutto va bene recupereremo a marzo. Siamo stati tutti testimoni di una tragedia, ma paradossalmente, sebbene possa sembrare una bestemmia, la pandemia e l’isolamento ci hanno dato anche la possibilità di riflettere e osservare le cose da un’altra prospettiva, in maniera diversa. La cosa che abbiamo imparato è che non bisogna mai perdere la speranza, e che c’è sempre l’occasione di tirare fuori nuove idee e prospettive. Dal punto di vista della musica, tralasciando gli esperimenti dei   concerti a distanza, abbastanza pietosi, in questo periodo sono nate diverse realtà perché tanta gente ha potuto studiare e lavorare. Certo, poi c’è la questione della diffusione, in un contesto già di per sé complicato…»

Quali sono le difficoltà principali per un musicista emergente?

«Il momento che stiamo vivendo, al netto del Coronavirus, è piuttosto complicato. Per le band emergenti è difficile riuscire a suonare da qualche parte. Hanno problemi le cover band, figuriamoci chi fa musica propria, ma se c’è la passione si va avanti lo stesso, nonostante tutto. Fra internet, diritti d’autore, dischi che non si vendono e guadagni praticamente azzerati è sempre più ostico fare il musicista di professione. Le persone devono pur campare e in tanti sono obbligati dalle circostanze a fare più lavori. A volte manca la necessaria continuità mentre noi potevamo suonare 24 ore al giorno. Il comparto, inoltre, non ha ricevuto alcun sostegno, e non parlo solo degli artisti ma di tutti i professionisti del settore, dai tecnici agli autisti, costretti a far fronte a spese spesso insostenibili. You Tube? Ha tanti risvolti positivi ma anche varie criticità che rischiano di penalizzare tanti gruppi, che poi decidono di mollare. La musica non sarà mai ammazzata da nessuno ma sono numerosi i musicisti che rischiano di sparire. Pensa che noi abbiamo praticamente tutta la nostra discografia caricata su You Tube e l’ultimo guadagno è stato di appena 6 o 8 euro. E considera che noi siamo dei privilegiati»

Parliamo un po’ del concerto di sabato. Non deve essere facile scegliere la scaletta con un repertorio così vasto.

«Fai conto che a ogni esibizione proponiamo un repertorio diverso, che spazia dai grandi classici a canzoni meno conosciute. Abbiamo la fortuna di divertici ancora a suonare, nonostante oltre 6mila concerti. Siamo nati sul palco e non abbiamo mai usato il computer… siamo assolutamente liberi e ogni live è diverso dagli altri. Ci sono dei brani che abbiamo eseguito migliaia di volte ma non c’è mai una versione uguale all’altra. Il segreto è non annoiarsi, come del resto in tutti i mestieri».

 

 

Sei fra i fondatori degli Area e hai vissuto da protagonista gli anni d’oro del progressive in Italia. Come ti spieghi il grande successo della Pfm oltre i confini nazionali?

«Oltre alla fortuna, che serve sempre, ci ha aiutato una particolare caratteristica che ha destato l’interesse del mercato inglese e americano. Noi eravamo un gruppo “prog” che però improvvisava, e negli States, dove la “musica classica” sono il jazz e il blues, quindi musica non “strutturata”, questo ha fatto la differenza. Ci siamo allontanati preso dal genere, convinti che il termine “prog” indichi il progresso, altrimenti si chiamerebbe rock regressivo. Anche il nostro nuovo disco, ad esempio, sarà totalmente diverso dai precedenti».

Si parla tanto di Genesis, Yes e Pink Floyd. Quali sono i gruppi che vi hanno influenzato?

«All’inizio ascoltavamo molto i King Crimson, ma probabilmente ad influenzarci maggiormente è stata la nostra esperienza in America, intorno al ’76, quando passavamo sei mesi all’anno a Los Angeles, frequentando lo stesso giro di Frank Zappa e Jaco Pastorius. Io suonavo tutte le sere con Jaco in albergo (ribadisce con l’orgoglio, ndr). Degli Yes, a dire il vero, non non mai ascoltato un disco intero. C’è da dire che quello era un periodo molto particolare. Nessuno all’epoca, ad esempio, faceva la musica degli Area, così contaminata, e io ero un cittadino del mondo, aperto a tutte le influenze. Ascoltavo di tutto, cose molto diverse l’una dall’altra, dal fado al rockabilly, fino alla classica. Anche perché quando siamo nati non c’era niente: né libri né maestri, figuriamoci i filmati. Trascorrevo le mie giornate ad ascoltare 45 e 33 giri. Questo ci ha permesso di diventare innanzitutto dei musicisti, e solo dopo degli strumentisti».

Quest’anno festeggiate 50 anni di carriera. C’è ancora spazio nello scenario contemporaneo, dominato da rap e trap, per il rock e per un genere complesso e “ostico” come il progressive? 

«Oggi dominano due tipi di mainstream, quello televisivo e quello della rete. Tutto si assomiglia. Per i giovani magari è una cosa bella, ma voglio vedere fra 40 anni cosa resterà di tutto questo. Eppure, anche adesso, nel mondo c’è una quantità di musica enorme e ci sono musicisti straordinari. La grande differenza è che all’epoca ad essere mainstream era la musica di qualità. Hendrix e Zappa facevano decine di migliaia di persone negli stadi…»

Cosa ne pensi dei talent e chi sono i vostri eredi in Italia?

«I talent non c’entrano niente con la musica. Seguono i criteri della televisione e servono solo a far sognare i ragazzi. Ma, a conti fatti, gli artisti “rimasti” che hanno preso parte ai vari programmi si contano sulle dita della mano. In Italia purtroppo non ci sono alternative. Pure all’estero ci sono i talent, ovvio, ma anche trasmissioni di qualità. Il fatto è che questi programmi (e ci metto dentro anche Sanremo) si basano su meccanismi che non hanno nulla a che vedere con l’arte. Sono gare. Per quanto riguarda i nostri eredi scelgo i “The Baroque Project”, anche se non sono molto conosciuti in Italia».

Il 1978 è l’anno del celebre tour con De Andrè, con il quale collaboraste già per “La Buona Novella”. Che ricordo hai di Fabrizio e come ebbe inizio la vostra collaborazione?

«Innanzitutto devo confessare che nessuno di noi all’epoca immaginava la portata di quell’evento. Era il 1978, ovvero il periodo in cui eravamo più in forma e facevamo anche 300 concerti l’anno. Un giorno abbiamo suonato in Sardegna vicino a casa sua e Faber è venuto a trovarci: era curioso di vederci, in fondo in quegli anni noi eravamo “gli americani”. Fabrizio invece era entrato nella modalità “contadino”: si dedicava anima e corpo alla sua sua nuova passione e non pensava più a fare il musicista. L’idea nacque durante un pranzo, sebbene fossero tutti contrari: le nostre case di produzione, i giornalisti, gli amici e i parenti. Fino a poco tempo fa non avevo capito fino in fondo l’impatto che quel tour ebbe su Fabrizio e sulle sonorità dei suoi album successivi. Me ne sono reso conto solo riguardando il film sulla tournée e osservando la sua espressione di gioia. Naturalmente anche lui influenzò noi, che da quel momento iniziammo a dare molta più importanza ai testi».

 

 

Molti vi identificano con “Impressioni di Settembre”, un pezzo entrato di diritto nella storia della musica italiana, ripreso negli anni da vari artisti, fra cui Battiato e i Marlene Kuntz. Quali sono invece i tre brani che tu ritieni più importanti o ai quali sei più legato per ragioni affettive?

«Impressioni di Settembre ha una storia strana. Pensa che era il lato b di un 45 giri e neanche noi ci credevamo più di tanto. Ha avuto molto successo anche perché fu la prima volta in Italia che un brano aveva un inciso strumentale e non cantato. Curiosamente ha avuto molti più riscontri da noi che all’estero. Se proprio devo scegliere tre brani, opto sicuramente per qualcosa di “Pfm in classic, forse il pezzo di apertura (“Il Flauto magico”). Non è un album molto radiofonico ma è la cosa più bella che abbia fatto. Come seconda opzione scelgo “Maestro della voce“, un brano scritto per Demetrio Stratos che è nato quasi per caso da un riff di basso. Infine metto ex aequo due dischi: “Jet leg”, che mi ricorda il periodo americano, e “Miss Baker”, con una segnalazione speciale per il brano Colazione a Disneyland, ispirato a Bach. Ah, ho dimenticato De Andrè… e non posso non citare la nostra versione di “Un Giudice”»

di Marino Rinaldi

 

 

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