Pubblichiamo una testimonianza scritta da una nostra lettrice: i fatti descritti si svolgono qualche giorno prima di Natale.

S.O: I miei amici oggi non ci sono, io però vorrei tagliarmi i capelli e farmi la barba, tu conosci qualcuno? Mi accompagneresti, se non ti dispiace?

G:Non saprei, provo a fare qualche telefonata. Tutt’al più andiamo in giro e cerchiamo un barbiere. Però non garantisco sul risultato, ok?

S.O:Ok, va bene, facciamo così.

(Messina, 20 dicembre 2017)

S.O. è un cittadino della Costa d’Avorio che da un paio d’anni vive e lavora a Messina. Dopo quella conversazione, Io e lui usciamo da casa. Noto un’insegna con su scritto “barber shop” (all’anglosassone fa un altro effetto, ma è un comunissimo barbiere), e di corsa ci infiliamo dentro il negozio. Il barbiere ci guarda stranito. Gli chiedo se c’è molto da aspettare e se possiamo accomodarci. Ci risponde che lui non può tagliare i capelli del ragazzo. E la barba? Gli domando. No, nemmeno quella, risponde. Perché? “A lui non li taglio”. Perché ? insisto io, sperando che tiri fuori una risposta sufficientemente convincente: “motivi personali” è la sua risposta.

Usciamo sbattendo la porta e ci dirigiamo verso il tram. Durante il tragitto io e S.O. parliamo d’altro. Entrambi facciamo finta che non sia successo niente per non urtare le nostre rispettive sensibilità. Io, sperando che non avesse capito; lui, che non ci fossi rimasta troppo male. Ci guardiamo e in silenzio pronunciamo il nostro disprezzo e la nostra infinita amarezza. Non ne stavamo parlando, ma non potevamo nemmeno starcene in silenzio. Così, all’insaputa di S.O., contatto un mio amico che lavora all’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) e brevemente gli racconto l’accaduto. Come immaginavo, ottengo da lui tutte le informazioni necessarie su come avviare una segnalazione e aspetto, quindi, il momento in cui resterò da sola per contattare il numero verde.

Arriviamo in centro, sono le 12.00 e andiamo in giro alla ricerca di un barbiere. Ne incontriamo e ci fermiamo in almeno sei o sette di questi patinatissimi barber shop (a quanto pare dei sofisticatissimi barbieri di una volta non vi è più nemmeno l’ombra in questa città). I primi ci rispondono che bisogna prendere l’appuntamento (?), tutti gli altri, invece, ci invitano ad uscire perché sono in orario di chiusura, salvo poi notare che in questo periodo (ma non solo) fanno tutti orario continuato.

Io e S. O. continuiamo a fingere di credere a quello che i barbieri ci raccontano. È troppo mortificante provare a discuterne. È troppo doloroso, per entrambi. Alle 13.15 decidiamo di andare a prendere un caffè e poi di salutarci. A breve, infatti, S.O. comincia il suo turno di lavoro e deve fare un po’ di strada a piedi. Lo saluto e vado via.

Tornando a casa, gli scrivo un messaggio. Parliamo per messaggio di quello che è successo. Gli dico della mia intenzione di segnalare il caso al numero verde dell’Unar e di voler intraprendere un’azione legale nei confronti del barbiere che “per motivi personali” si era rifiutato di tagliargli i capelli e la barba. Gli spiego che però ho bisogno di sapere lui cosa ne pensa e, soprattutto, cosa desidera fare. S. O. mi risponde che è d’accordo con me e che posso procedere con la segnalazione. Per telefono riusciamo a verbalizzare tutta la rabbia e la tristezza provate, quello che non eravamo riusciti a fare fino a pochi istanti prima di presenza.

Anche adesso, mentre scrivo di getto e senza esitazioni l’esito di questa storia, facendo in fondo né più né meno di quello che con il tempo mi sono abituata a fare –  trascrivere e osservare da antropologa la città e le condizioni di esistenza di chi la vive stabilmente o di passaggio  –  mi chiedo se sia giusto farlo anche in questa circostanza, quando cioè la natura del racconto e dell’incontro è personale.

Malgrado le legittime perplessità e a dispetto dei codici etici e deontologici a cui tendenzialmente dovrebbero aderire gli accademici e i professionisti dell’antropologia, i quali mettono bene in guardia dal servirsi del metodo dell’etnografia in contesti in cui il confine tra la sfera personale e la sfera lavorativa risulta indistricabile e, dunque, scientificamente scivoloso; in questi giorni ho finalmente preso la decisione di raccontare questa storia. E forse non è un caso. Sono giorni concitati anche a Messina, il Natale è alle porte e in città si respira una strana atmosfera di festa. Quest’anno, come non mai. Mercatini di natale guarniscono ogni angolo della città;  una maestosa e coloratissima ruota panoramica sorvola il cielo della sonnolente città dello Stretto, invitando tutti e tutte a stare con il naso all’insù (cosi che nessuno si accorga di quello che accade giù, in mezzo a tutti noi); alberi, alberelli e luminarie accendono e scaldano i cuori degli abitanti; negozi gremiti di gente che in questo periodo dell’anno saluta l’austerity e riscopre la gioia dello shopping compulsivo; e poi c’è lui, S. O., un cittadino della Costa d’Avorio residente a Messina, che desidera dare una sfoltatina a barba e capelli, ma che dovrà attendere il ritorno in città dei suoi amici perché non siamo a Siviglia, Figaro non è Figaro, Io e lui non siamo Rosina e il Conte d’Almaviva, e a ognuno tocca il suo barbiere connazionale.

Giuliana Sanò

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Ronny Genovese
Ronny Genovese
29 Dicembre 2017 10:54

Codici etici e deontologici? Spiegate a quel “Barber Shop Man” Che identificarsi con un titolo cosi, non lo renderà mai migliore degli altri. Una parvenza smisurata ed un autocelebrarsi di continuo, rende la gara del chi “ce l’ha più grosso” a semplice partita a carte “tre sette con il morto”. Ah, dimenticavo di dire che in questi casi, vince sempre il morto.

Nicola Galletta
Nicola Galletta
29 Dicembre 2017 11:50

Ma siamo nel ventunesimo secolo o nel paleolitico…?ancora succedono certe cose a Messina? no,no, non ci posso credere…
VERGOGNA!
Motivi personali…bah…

Giuseppe Cullurà
Giuseppe Cullurà
29 Dicembre 2017 12:20

Un po’ più di coraggio. I nomi e gli indirizzi di questi artigiani.
Non vorrei proprio, inconsapevolmente, incrementare i ricavi di un razzista

Giancarlo
Giancarlo
29 Dicembre 2017 15:37

Stavo per scriverlo anche io! Dai Giuliana, dicci i nomi e non andremo più da loro! Gli unici da discriminare al mondo sono i razzisti!

Michele Lotta
Michele Lotta
29 Dicembre 2017 16:55

Si, ma facciamo nomi e cognomi, per due motivi: attestare l’autenticità dell’accusa e tenere lontane le persone per bene da questi brutti individui.

Felice MIceli
Felice MIceli
2 Gennaio 2018 19:48

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