MESSINA. Ospitata dall’Università di Messina con il patrocinio dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti e in collaborazione con la Scuola Superiore di Studi Storici dell’Università della Repubblica di San Marino, negli scorsi giorni si è svolta una giornata di studio sul tema “Dopoguerra e pandemia.  L’influenza «Spagnola» in Sicilia: istituzioni, società, memoria. 1918-1919”. L’iniziativa ha visto la partecipazione di studiosi provenienti da differenti università e centri di ricerca siciliani e non solo, e ha rappresentato la disseminazione dei primi risultati di un’indagine, ancora in corso, svolta da un gruppo di storici, coordinato da Claudio Staiti. Dopo i saluti del prorettore vicario dell’Ateneo di Messina, Giuseppe Giordano, nella prima parte della giornata, svoltasi presso la sala dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, è stato dato spazio a delle relazioni che sono servite a inquadrare il contesto isolano nel più ampio quadro nazionale di risposta all’epidemia di influenza Spagnola, verificatasi negli anni 1918-1919 e che costò la vita a circa 600.000 italiani.

Eugenia Tognotti (Università di Sassari) ha sottolineato come il Covid-19 abbia agito da evento catalizzatore del ricordo dell’influenza spagnola del 1918: archiviata per decenni, è stata posta al centro dell’attenzione in un modo senza precedenti. Dopo aver spiegato il motivo dell’oblio che ha circondato la Spagnola (di cui dà conto anche l’assenza di elementi espressivi e rituali del mantenimento del passato nel presente come statue, cerimonie commemorative, musei storici, film su uno dei disastri più devastanti della storia umana), la studiosa ha evocato i perché dello slancio senza precedenti, assunto, in particolare nella prima fase del Covid, dal risveglio della memoria collettiva. Fabio Montella (Istituto Storico di Modena) si è concentrato sulle reazioni, il dibattito e le contromisure che un evento inaspettato e dall’enorme impatto come la pandemia influenzale ebbe sull’Italia del 1918-1919. Ciò che emerge dall’ampia documentazione consultata è che in Italia la risposta a quanto stava accadendo fu influenzata dal progredire delle conoscenze scientifiche ma anche dalla percezione che si aveva della malattia, che era condizionata da molteplici fattori. Non ultima la tensione tra la necessità di informare – affinché gli italiani non sottovalutassero la malattia – e la volontà di censurare – per non creare eccessivo allarmismo nella popolazione. Enza Pelleriti (Università di Messina) ha inteso analizzare la qualità e la quantità dell’intervento pubblico in occasione del diffondersi della febbre spagnola nel Meridione d’Italia, soprattutto tra l’autunno del 1918 e la primavera del 1919. L’indagine è stata principalmente rivolta, per un verso al governo dell’emergenza, nello specifico alle azioni attuate dalle istituzioni centrali e, per un altro, alle modalità con le quali esse furono recepite in alcune città della Campania, della Puglia e della Calabria, facendo affiorare similitudini e diversità tra i vari territori presi in esame. Luca Gorgolini (Università di San Marino) si è concentrato sull’impatto che la pandemia ha avuto sulle operazioni militari e quindi sull’esito del conflitto. Un tema studiato in ritardo per colpa dei silenzi e delle omissioni della documentazione ufficiale prodotta dalle istituzioni civili e militari e che possono essere solo parzialmente aggirate prestando attenzione alle fonti soggettive. Giancarlo Poidomani (Università di Catania) ha richiamato l’attenzione sul periodo che va dal 1914 al 1919 che, nel caso siciliano, ha sofferto fino a pochi anni fa di una enorme lacuna storiografica. Sia la Grande guerra, che soprattutto la Spagnola rappresentano una fase che nella ricerca storica è stata schiacciata tra il termine dell’Italia liberale e l’avvento del fascismo, eventi che hanno finito per cancellare qualsiasi altra tematica che non fosse quella politica e ideologica.

Nella seconda sessione della giornata, svoltasi presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne, coordinata da Giovanna D’Amico (Università di Messina), si sono presentatialcuni focus specifici sulla Sicilia, dove la Spagnola portò alla morte circa 30.000 persone. Alessia Facineroso (Università di Catania) nella sua relazione ha parlato della Spagnola come una sfida scientifica e organizzativa anche per i medici accademici e le strutture nelle quali essi operavano in Sicilia: in particolare, gli ospedali militari e le Cliniche chirurgiche e neuropsichiatriche e i presìdi della Croce Rossa. A dispetto della lontananza geografica dal fronte, l’isola si ritrovò in prima linea nella gestione sanitario-assistenziale, e ciò per un verso conferma il dato più generale della governance emergenziale affidata agli atenei sin dal 1915; per un altro rimanda al non comune ruolo di ricerca e di confronto scientifico che coinvolse la medicina universitaria e le strutture in cui essa operò. Fabio Milazzo (Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo) si è proposto di indagare il dibattito medico e scientifico sull’influenza spagnola, soprattutto nelle sue ricezioni locali, le politiche sanitarie adottate e le pratiche mediche attraverso cui vennero declinate nei principali contesti dell’isola, le misure di profilassi introdotte, ma anche le percezioni collettive sulle stesse. Lo studioso si è chiesto come reagì la sanità pubblica siciliana davanti all’emergenza sanitaria, all’interno di quella più generale crisi delle istituzioni rappresentative a vantaggio dell’esecutivo, e, in un contesto di confusione scientifica generale, come si mosse il segmento medico siciliano sul piano culturale e scientifico. Antonio Baglio (Università di Messina) nella sua relazione ha preso le mosse dallo spoglio dei principali quotidiani dell’isola: “L’Ora” di Palermo, Il “Corriere di Catania”, “La Sicilia” (sempre di Catania) e la “Gazzetta di Messina e delle Calabrie” per valutare come l’epidemia spagnola fu “raccontata” nei giornali isolani. Se da una parte il “controllo istituzionale” incise a fondo sull’informazione, nell’ottica di una censura di guerra estesa su qualsiasi aspetto potesse inficiare l’impegno bellico, impedendo qualsiasi riferimento “allarmante” e manipolando le poche informazioni emerse sui periodici, dall’altra parte, anche nel caso siciliano, emerge come le reali dimensioni e modalità della “spagnola” fossero inizialmente confinate nei numeri dei bollettini medici e nelle cronache locali delle seconde e delle terze pagine dei giornali, ridotte spesso a trafiletti, con l’intento di tranquillizzare il lettore. L’epidemia diventò inoltre il metro di valutazione per testare la capacità di intervento delle amministrazioni locali in tema di rispetto delle norme igieniche, distribuzione di viveri fondamentali come il latte e le carne, contenimento dei prezzi. La polemica, non potendo orientarsi verso il governo, si concentròsulla gestione politica locale, senza sfociare in disordini, ma mantenendo toni verbali in taluni casi assai aspri. Infine, Claudio Staiti (Università di San Marino) ha riflettuto sul fatto che anchein Sicilia, dove pure nei mesi di maggior incidenza di mortalità, sembrerebbe avere agito da evento catalizzatore, la Spagnola è di fatto uscita presto dalla scena. Taciuta o sottorappresentata nella stampa coeva, pressoché assente nella successiva rappresentazione pubblica, è nelle memorie “private” che è però possibile tentare di individuare in modo più esteso le modalità di reale percezione della popolazione di fronte all’epidemia e ciò dimostra come, anche a distanza di anni, la Spagnola fosse ancora strettamente ancorata nei ricordi familiari degli isolani.

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