di Giorgia Nunnari

MESSINA. È stato presentato alla libreria Feltrinelli di via Ghibellina il libro di Claudio Staiti, “La grande guerra dei siciliani. Lettere, diari, memorie” proprio il 4 Novembre, giorno dell’anniversario della fine della prima guerra mondiale. L’incontro è stato moderato da Salvatore Bottari, docente di Storia Moderna dell’università degli studi di Messina, che ha introdotto il libro parlandone come di un volume che “si fa particolarmente apprezzare non solo per la solida ricerca, ma anche per la capacità dell’autore di leggere i documenti facendo emergere anche quello che è taciuto.”

 

 

La discussione ha preso il via dagli interventi dei professori Giovanna D’Amico, Antonio Baglio e Fabio Milazzo, che hanno evidenziato i temi cardine della ricerca di Staiti e l’importanza che questa assume per la storia della Sicilia. Per la professoressa Giovanna D’amico, si tratta di “un libro necessario che colma una lacuna storiografica”, senza però trascurare di avvalersi della storiografia che il tema ha alle spalle. Una ricerca minuziosa che ha portato Staiti a consultare archivi pubblici e privati, da Arezzo a Rovereto, Trento e Genova.

“La ricerca”, ha spiegato l’autore, “è partita da una constatazione: la pressoché totale assenza di studi sulle scritture popolari dei siciliani.”

L’attenzione particolare ai siciliani lo ha spinto quindi a sfatare diversi miti, a partire da quello sulla presunta maggiore presenza di disertori sull’isola. “C’era questa immagine di una Sicilia distante dai campi di battaglia, estranea alle vicende della guerra”, ha spiegato il professore Baglio, “ma così non era. La Sicilia era una frontiera senza trincee – ha fornito un contributo in termini di approvvigionamenti, in termini di risorse messe a disposizione e in termini di uomini”.

Altri miti riguardavano la mancanza di testimonianze che si riteneva dovuta a un totale analfabetismo dei siciliani o alla distanza tra l’isola e il fronte. Staiti parla invece di un “graduale disinteresse forse teso a dimenticare” e di “ritrosia a condividere i ricordi con chi non è parte di quella famiglia”.

Il libro non manca di porre l’attenzione anche sulle conseguenze psicologiche della guerra e sul trattamento riservato ai soldati traumatizzati, che si credeva esagerassero per ottenere la convalescenza o che venivano additati come isterici e “poco uomini”.

Nel recuperare le testimonianze più sincere, la ricerca mette in risalto la differenza tra i vari generi analizzati: lettere, diari e memorie. Tra le lettere, possono essere considerate di particolare importanza quelle bloccate dalla censura e ora conservate nell’archivio di stato. “Per uno storico, cosa c’è di meglio di leggere delle lettere fermate dalla censura? – Ci fa capire quali erano alcuni dei reali sentimenti dei militari”, spiega Saiti, contrapponendo poi i diari che sono, invece, rielaborati e meno spontanei, perché “è comune l’idea che a leggere non sarà solo la famiglia”.
Ancora diverse sono le memorie che “arrivano dopo, quando già c’è stata una prima fase di elaborazione del lutto.” “Sono tre generi diversi che ci danno punti di vista diversi ma una percezione della guerra che spesso è la stessa.”

L’incontro si è concluso con l’invito dei professori a leggere il lavoro degli storici per avere una reale conoscenza dei fatti e con l’auspicio di Staiti di un proseguimento della ricerca anche grazie alla nascita dell’archivio di scritture popolari siciliane, aperto per l’Università di Palermo, dal centro per gli studi filologici e linguistici siciliani.

 




 

 

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