Mi vado sempre più accorgendo di come la Letteratura (quella buona, beninteso) aiuti a comprendere la realtà. Volete un esempio?

Prendiamo l’evento che in questi mesi costituisce la nostra maggiore fonte di paure, incertezze, speranze (ma anche menzogne, cinismi, turpitudini…). Parlo naturalmente del Coronavirus, questa pandemia che ormai ci accompagna (come direbbe Cesare Pavese) “dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo”, che proverò a decriptare attraverso le pagine dell’ultimo libro di Primo Levi, I sommersi e i salvati, un testo del 1986 che si compone di brevi saggi costituenti nel loro complesso il diario, lucido e straziante al contempo, di un universo concentrazionario ben più terribile e feroce di quello cui ci siamo assuefatti nel corso di un anno scandito da intermittenti lockdown.

In questo testo possiamo trovare tante chiavi di lettura che ci aiutano a comprendere molte delle dinamiche che in quest’anno appena trascorso hanno segnato i rapporti delle persone tra loro e con la realtà in cui esse si sono venute a trovare. Levi stesso annota come le dinamiche comportamentali e i meccanismi osservati nel campo di concentramento di Auschwitz si fossero in seguito replicati e fossero osservabili anche nella società liberata dagli orrori nazisti. Le zone grigie, la corruzione, le strumentalizzazioni rilevate in tempo di prigionia avevano dato i loro frutti “clonandosi” nell’Occidente post bellico.

Esamino qui solo alcuni pochi punti sui quali Levi diresse le sue riflessioni.

Egli parla ad esempio della tendenza di molti a rifiutare l’esistenza dei lager, o almeno a sminuirne l’orrore e l’intima natura antiumana. Un rifiuto già previsto dai nazisti, che amavano ripetere alle loro vittime che mai nessuno avrebbe prestato fede alle loro narrazioni. Bene, non vi fa pensare tale atteggiamento al negazionismo ottuso della realtà pandemica (il Coviddi non esiste, per citare il grottesco ritornello di una tipa palermitana in cerca di facile ancorché effimera celebrità nel Circo Barnum dei social e dei media più terra terra, quelli di Giletti, De Filippi, D’Urso, Marcuzzi, Signorini….) che si è dispiegato in questi mesi, non a caso fatto proprio dagli stessi che negano l’Olocausto?

Nel primo capitolo, La memoria dell’offesa, Levi affronta il problema della memoria umana, fallace e facile a farsi condizionare da notizie divulgate in tempi successivi, quando non prestante fede alle più incredibili falsificazioni. E a quante “perdite di memoria” abbiamo assistito in questi mesi, a quanta ottusa fede tributata a chi spargeva notizie, dati, previsioni, diagnosi della realtà palesemente false? Una per tutte le fake news oggi liberamente circolanti, la teoria che il vaccino impianterebbe nei cervelli dei vaccinati un dispositivo 5G finalizzato a controllarne i comportamenti, e numerose altre simili fregnacce che hanno tutte lo scopo malcelato di mandare in pappa tutte le risorse di memoria sana, razionale, che una minima conoscenza storica e uno sguardo sereno sulla realtà dovrebbero conservarci.

Nel capitolo La zona grigia, l’autore tratta dei privilegiati all’interno dei lager, quella che lui definisce appunto “la zona grigia”. Nel nostro presente, le zone grigie sono quelle di chi sceglie di non schierarsi e decide di rimanere comodamente affacciato al proprio metaforico balcone, in attesa magari di saltare infine sul carro dei vincitori. 

Ne La vergogna Levi ci parla dell’angoscia della liberazione. Chi ha vissuto la vita del lager non riuscirà più ad avere un rapporto sereno con la realtà esterna, perché l’atrocità dei ricordi tornerà ancora e ancora a rimordere, a togliere sonno e pace. Se non, come avvenne allo stesso Levi, a decidere di suicidarsi per cancellare radicalmente ogni ricordo della barbarie. Bene, questa sensazione angosciosa è una tentazione dalla quale noi, che attraversiamo per la prima volta un momento storico assai simile a quello che vissero con le guerre i nostri padri e i nostri nonni, dobbiamo cercare di tenerci lontani, in quanto la società che dovremo cercare di ricostruire alla fine di questo tunnel pandemico possa essere non un mondo di sopravvissuti ma una comunità di persone disposte a intravvedere “cieli nuovi e terra nuova”.

Nel capitolo Comunicare l’autore tratta delle difficoltà derivanti dalla mancata comprensione del tedesco e dei diversi, imbastarditi sistemi gergali affermatisi in seno ai diversi lager. E non è questo un rischio comune anche alla nostra contemporaneità, quello di perderci e smarrire la comprensione del reale a cospetto della grande confusione delle lingue? Una confusione che non tocca, beninteso, le lingue propriamente dette, mai come ora diffuse e partecipate, ma i linguaggi (i modelli di comportamento, i tic e i tabù, le folli ideologie) troppo spesso feroci delle varie “tribu” che popolano il pianeta.

Nel capitolo Violenza inutile Levi si sofferma su alcuni aspetti della violenza praticata all’interno del lager, una violenza priva di scopo, messa in atto all’unico fine di suscitare piacere in chi la esegue. Dal viaggio nei carri merci alla nudità imposta ai prigionieri, dal tatuare i deportati quasi fossero bestiame all’imposizione di lavori inutili, e infine gli esperimenti effettuati sui corpi delle persone, assistiamo a un’ampia gamma di crudeltà che si autogiustificano proprio per la loro mancanza di senso. E a me sovvengono i barboni cosparsi di benzina e dati alle fiamme, le aggressioni immotivate a danno di sconosciuti, l’enorme carica aggressiva quotidianamente espressa nei social, la morte augurata a chi non si conosce solo per obbedire a turpi incitamenti populisti…

Cosa voglio affermare? Che conclusione intendo proporre, se di conclusione può parlarsi in un contesto del genere? Semplicemente che questa pandemia ha provocato un po’ dappertutto (nessuno si senta escluso!), come era da prevedere, un certo qual sonno della ragione. E questo sonno della ragione, come ben sapeva Francisco Goya, ha generato mostri. Di questi mostri occorrerà d’ora in avanti che ognuno di noi rimanga ben consapevole, se vuole tenere aperta a sé la via per liberarsene pian piano.

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