Di Maria Arruzza
MESSINA. Ci sono romanzi che hanno una storia potente, che ti trascinano in un vortice di fatti e misfatti, di cose accadute, che accadono e che immagini possano accadere, storie brevissime che leggi a occhi chiusi travolta dagli avvenimenti in una posizione che coincide con il narratore interno, tanto che finisci per essere tu il narratore, oppure storie dall’intreccio estenuante lungo anche cento anni, con un arco temporale ricco di analessi e prolessi, se non anche di ellissi, che ti portano a vivere una seconda vita. E poi ci sono romanzi in cui la fabula ha minore importanza, c’è e non c’è, si trasforma mentre leggi, perché forse si è trasformata durante la scrittura. E questi ultimi romanzi traggono forza solo ed esclusivamente dalla parola. È la parola che ti avviluppa e ti incantesima. La parola che diventa essa stessa protagonista e ti induce a seguire le vicende del protagonista. Quando la parola viene usata in modo armonico, anzi direi musicale a tutti gli effetti, ne vien fuori un romanzo che parla all’anima. Leggendo “Col buio me la vedo io” di Anna Mallamo (Einaudi) entri a passi leggeri in un teatro e in breve vieni risucchiato dalla musica di un’orchestra: ogni strumento ha il suo ruolo importante e i violini sono virgole, i timpani gli accenti, il pianoforte che dà la melodia è la struttura, l’enfasi dei fiati sono i punti esclamativi, la dolcezza dell’arpa sono gli incisi e così via in un concerto ben fatto. Il risultato è un linguaggio fatto di battiti e respiri, timbri e pause, vorticoso crescendo di suoni e smorzature improvvise.
La fabula prende vita attraverso lingue che si intrecciano e si accavallano. Hai la musica nelle orecchie. Hai la parola nella testa. È questa la caratteristica più evidente del romanzo di Anna Mallamo. Non è nuova, forse, perché penso al flusso di coscienza dell’Ulisse di Joyce che non puoi leggere facendoti dettare il ritmo da una punteggiatura che non c’è; il ritmo, invece, devi assolutamente cercarlo nel tuo respiro. Non è un caso che la scrittura della Mallamo sia ricca di polisindeti e asindeti proprio a marcare l’uso della pausa e del ritmo in base al respiro, al pensiero. Quando pensiamo non ci curiamo degli accapo, delle connessioni, delle dipendenze. Pensiamo e basta. E ci lasciamo trascinare dal fiume di parole.
Ma la scrittura di Anna Mallamo ha un’altra peculiarità, tutta sua, nonostante l’eredità anche pesante che ha ricevuto dalle sue intense letture. La lingua. Una lingua perfetta (e quanto ne abbiamo bisogno!), curata, limata e studiata, ma contaminata dal dialetto. Il che non significa affatto che si tratta di una scrittura vernacolare né tantomeno di una di quelle lingue fintodialettali che fanno rizzare i peli. Il dialetto inteso come parte integrante della vita quotidiana, il dialetto ancestrale che riemerge dai ricordi dell’infanzia, il dialetto che inventa una lingua nuova. E qui, ma l’autrice lo ha dichiarato, l’eredità più forte è quella di Stefano D’Arrigo dell’Horcynus Orca, autore straordinario troppo spesso trascurato perché come Joyce si ritiene “difficile” da leggere. Eppure basterebbe solo lasciarsi andare e farsi portare fino in fondo dalla corrente delle parole, senza fare resistenza, per apprezzare a pieno la bellezza della scrittura.
In fondo noi cresciamo imparando codici di comunicazione differenti, verbali e non verbali, e anche la lingue (o le lingue) che impariamo finiscono per costruirci un’identità. Lo spiega bene Lucia, la protagonista, quando riflette: “Penso a tutte le lingue che attraverso, quella dei grandi, quella dei figghioli, il greco di Castelli, il francese della signorina Drago, l’inglese delle canzoni, e poi la lingua muta di casa mia, la lingua sabbaggia di nonna, la lingua precisa di zia Rosa, la lingua mala di Rosario. Ma non so che lingua parla Carmine, la lingua che parlo con Carmine”.
Abbiamo bisogno di un linguaggio per comunicare e per rappresentare noi stessi agli altri e dalla scelta di questo linguaggio dipende l’accettazione di noi stessi, l’accettazione dell’altro, l’accettazione da parte dell’intera comunità. Il lavoro che la Mallamo fa sulla lingua è straordinario, la mescolanza, non casuale, con frammenti di greco antico, con il dialetto reggino e financo con espressioni gergali come il gingomma postguerra, porta a nuovi suoni che fanno vivere la parola. Quante volte nei romanzi l’uso improprio del dialetto ci fa sentire una voce affettata del personaggio? E quante volte invece l’uso del dialetto ci fa sentire l’anima del personaggio? Leggendo Pasolini riesci a sentire lo schiamazzo dei ragazzi di borgata, leggendo Camilleri non senti il siciliano che si parla per le strade. È cosa altra.
Poi, quando il dialetto lo usi, come fa la Mallamo, non solo per dar voce (con le costruzioni involute o ridondanti della frase, com’è tipico del vernacolo e ancor più di quello “tradotto”), ma anche per descrivere, e basta un sostantivo, un aggettivo, un verbo, allora hai una scrittura che vive veramente.