Brutalismo e dewcostruttivismo fuse insieme nello stile "non -finito siciliano"

 

Come tanti nel corso di queste settimane ho osservato in silenzio l’interessante progetto di sbaraccamento pianificata dal neo-sindaco De Luca. L’ho trovata, senza mezzi termini, un’operazione straordinaria. Non tanto per gli obiettivi manifesti – ossia lo sbarazzarsi di questa “vergogna”, la baracca, che coinvolge migliaia di persone – quanto per quelli occulti, che consistono evidentemente nella creazione di un ampio “blocco sociale”, composto da portatori di interesse che sostengano in futuro l’azione del sindaco, diventandone lo zoccolo duro in ragione proprio degli interessi materiali che il primo cittadino ha saputo rappresentare e promuovere.

De Luca, che è un animale politico intelligente, con salde radici nella Democrazia Cristiana, sa infatti benissimo che non si governa unicamente sulla base di una comunione sentimentale con il popolo, ma che è necessario produrre una classe sociale di sostegno.

Tra le altre cose, dunque, lo sbaraccamento è l’operazione che gli consentirà di attivare un mercato immobiliare stagnante (si calcola infatti, probabilmente con qualche esagerazione, che siano circa trentamila le case sfitte presenti in città) e, presumibilmente, di schierare dalla propria parte un ampio bacino che include proprietari di alloggi, agenzie immobiliari e imprese edili. Senza contare l’importanza che la terra liberata dalla baracche assumerà ai fini dello sviluppo di nuova edilizia, con le sue conseguenze sul piano del lavoro e sulla simpatia che la vastissima classe dei lavoratori edili – probabilmente la più estesa in città per quanto riguarda il settore cosiddetto secondario – riserverà a colui che finalmente ha rimesso in moto l’industria delle costruzioni.

Il resto – ma questo è evidente e ammesso dallo stesso De Luca – è rappresentato dalle ricadute in termini di reputazione politica. Lo sbaraccamento è l’operazione che, se dovesse riuscirgli, lo renderà un candidato temibilissimo alla presidenza della Regione. E che, in ogni caso, aumenterà enormemente il suo capitale d’immagine, costruendo una risorsa spendibile su piani politici per adesso inimmaginabili.

Se dunque il neo-sindaco merita per intero la stima di politico accorto che in molti gli riserviamo, bisogna però dire che il suo pragmatismo radicale rischia di andare contro le persone al centro della sua azione amministrativa e, dunque, contro sé stesso.

Da studioso di disastri ed esperienze di ricostruzione ho immediatamente avvertito un naturale interesse per ciò che il Sindaco andava prospettando. E osservo con profondo attenzione la mobilitazione con cui gli abitanti di alcune aree di risanamento rifiutano l’etichetta di baraccati, opponendo quella nozione di “casa” che, insieme a una mia coautrice, avevo analizzato in un saggio pubblicato l’anno scorso. Tuttavia non volevo dire nulla a riguardo senza prima essere ritornato in quegli ambienti sociali che ho osservato a lungo, ma da cui latitavo da tempo.

Ho avuto occasione di farlo brevemente proprio l’altra sera, incontrando un po’ di famiglie e abitanti di uno dei quartieri interessati dal processo. Niente di più, dunque, che una ricognizione di luoghi, situazioni e classi sociali che ho conosciuto negli anni. Tuttavia la familiarità pregressa con le questioni presenti sul campo mi permette di dire che, malgrado ciò che appare e che si sta sforzando di trasmettere al pubblico, il Sindaco De Luca sta compiendo una serie di gravi errori nella gestione sociale della questione sbaraccamento. Errori, peraltro, da manuale dell’intervento in situazioni di bisogno sociale.

Proprio perché nel caso messinese lo sbaraccamento è un’operazione volta a costituire un blocco sociale ancora prima che a intervenire su una situazione sociale problematica, esso assume un evidente carattere verticistico. Precipita improvvisamente dall’alto, senza essere preceduto da un pretesto o da un avvenimento particolari. L’intervento viene dunque gettato nel dibattito politico a ciel sereno, secondo quella logica della stupore che caratterizza la politica contemporanea. Una politica dello spettacolo a misura di una società dello spettacolo, secondo la celebre formula che dobbiamo al filoso Guy Debord. Una politica, dunque, che si basa sulla spettacolarizzazione delle azioni e degli attori, sulla comunicazione a misura di un pubblico di convenienza e sulla performance.

Se la comunicazione generale, quella rivolta al pubblico che risiede nelle case, composto dagli elettori passati e futuri, è riuscita benissimo, quella destinata alle persone che risiedono nelle baracche è invece latitata completamente. Per lo meno se ti tralascia la comunicazione compiuta da figure istituzionali, quali gli addetti al “censimento” oppure i medici che indagano la presenza di patologie correlate all’amianto. Una “comunicazione dell’autorità”, dunque, affatto dissimile da quella di chi riceva, poniamo, un avviso dell’Agenzia delle entrate.

Se il pubblico borghese trae rassicurazione dallo spettacolo dell’efficienza rappresentato da un Sindaco vulcanico e attivissimo, quello delle baracche patisce invece la mancanza di informazioni su quello che sarà il proprio destino e su cosa accadrà al proprio quotidiano, fatto di routine, reti familiari per l’assistenza, prossimità ai parenti e agli amici. Quel quotidiano, insomma fatto della stessa sostanza e dei medesimi bisogni di chiunque altro sviluppi relazioni legate a un luogo, un quartiere e una città. Gli stessi bisogni di chi, dall’interno della propria abitazione a norma, guarda con simpatia e senso di giustizia agli sbaraccamenti.

Non a caso, una parola che ho sentito spesso nel corso della mia visita in uno dei quartieri prossimi allo sgombero è “sradicamento”. Queste persone, cioè, hanno appreso da un momento all’altro che dovranno rinunciare al proprio quotidiano e al proprio ordine di vita, come se un uragano distruttivo, annunciato con qualche margine di preavviso, stesse abbattendosi sulle loro vite e sulle loro case, costringendoli così a essere evacuati.

I vecchi con cui ho parlato sono, senza esagerazione alcuna, disperati. Temono che la famiglia sarà divisa. Hanno paura di essere sfuggiti al “censimento” dei giorni scorsi e di essere dunque destinati a essere separati dal resto dei parenti. I più giovani hanno sentito che saranno portati a Villafranca oppure in qualche area remota della zona sud, e si chiedono cosa ne sarà della scuola e dei loro amici. Alcuni si attrezzano alla resistenza e altri dichiarano di odiare visceralmente De Luca.

Per l’appunto, se De Luca è stato efficiente col pubblico dei suoi elettori immaginari – quelli che risiedono in una casa, che hanno lavori più o meno regolari e sognano una città bella simile a una vetrina – lo è stato molto meno con le persone che vedranno sradicata la propria vita, in nome peraltro del loro stesso bene. Queste persone, anzi, sentono di essere state finora trattate come inerti; ossia come oggetti indesiderabili di cui si dispone liberamente e della cui coscienza e sentimenti non si tiene conto.

Loro chiedono invece di essere ascoltati. Di conoscere quali sono i piani e di concordare con l’amministrazione sistemazioni che tengano conto dei bisogni di tipo familiare, legati per esempio all’assistenza condivisa dei malati tra membri di una medesima famiglia che abitano attualmente in case diverse ma tra loro vicine. Chiedono altresì che vengano tenute presenti le esigenze dei figli relativamente alla scuola oppure alle attività formative e lavorative che seguono. Qualcosa, peraltro, che appare doppiamente importante in una città in cui le distanze sono rilevanti e i mezzi pubblici soggetti a un importante ridimensionamento.

Sappiamo bene che il paradigma dell’emergenza non è compatibile con quello del rispetto delle esigenze familiari e della programmazione condivisa. Tuttavia se il paradigma emergenziale ha senso nell’imminenza di un disastro, nel caso in questione dovrebbe prevalere quello della partecipazione, che è proprio delle esperienze più avanzate di intervento sociale. Il punto, insomma, consiste nell’evitare di aggiungere sofferenza alla sofferenza.

Se si può comprendere facilmente l’ossessione del Sindaco col tempo e il suo bisogno di tradurre in azione i propri piani, non si può fare a meno di notare che la dislocazione delle popolazioni in situazioni “normali” – quelle che non sono caratterizzate dai bisogni imposti da un disastro improvviso – impone la partecipazione e il coinvolgimento dei soggetti interessati dal provvedimento nella stesura del progetto. Le forme attuali dell’operazione – non se ne abbia a male il primo cittadino – sono invece quelle autoritarie, esperite in Cina o in Brasile, allorché c’è da fondare una nuova città oppure da allestire le Olimpiadi. La promessa di impiegare l’esercito non contribuisce peraltro a sostenere la percezione di una profonda differenza tra i due stili.

Se è facile comprendere le regioni che spingono De Luca ad assumere questi modelli autoritari di intervento invece che a frugare nel repertorio delle “migliori pratiche” internazionali, che sono certamente anche più lente, bisognerà però fare presente che in questo genere di operazioni solo raramente velocità ed efficacia si accompagnano tra loro.

E, soprattutto, occorrerà notare che la memoria pubblica che accompagna gli autori delle grandi dislocazioni di massa è raramente benigna con questi ultimi. Per quale ragione Cateno De Luca dovrebbe essere una eccezione rispetto a quella che è quasi una regolarità storica, e perché dovrebbe consegnarsi a un “destino della memoria” così infame senza che nessuna nuova reale urgenza glielo imponga (se non quella formale dei dispositivi giuridici, su cui tempi potrebbe però agevolmente intervenire, sottraendosi all’ansia da cronoscalata e realizzando un’opera dai costi sociali nettamente inferiori e dalla limitata sofferenza sociale)?

 

Subscribe
Notify of
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments