Testo e illustrazioni inedite di Luciano Giannone. Architetto messinese, si è laureato a Firenze con una tesi  sulla città antecedente al terremoto del 1783, da cui sono stati tratti un libro (“Messina nel 1780.  Viaggio in una Capitale scomparsa”)  e un filmato con la ricostruzione in 3d e a colori delle bellezze perdute.

 

MESSINA. Per raccontare la storia di questo gigante dormiente nel cuore della Falce partiamo dalle notizie più recenti. Si sono infatti da poco concluse le procedure di affidamento incarico coordinato dalla Soprintendenza volte al progetto di recupero, riqualificazione e valorizzazione del complesso della Real Cittadella. I finanziamenti stanziati dalla Regione siciliana a partire dal 2021ammontano a circa 18 milioni di euro, più altre somme destinate al risanamento delle aree degradate occupate dai vecchi impianti industriali intorno la lanterna del Montorsoli. Edulcorata da toni trionfalistici che hanno spesso accompagnato clamorosi e innumerevoli buchi nell’acqua e promesse mai mantenute, la notizia è stata confermata dalle parole della Soprintendente Mirella Vinci, che sembrano trasparire un cauto ottimismo. L’argomento è delicato, molto delicato, perché, nonostante l’incoraggiante stato del progetto e l’effettiva congruità dei finanziamenti, noi messinesi siamo ben allenati a un’interpretazione pessimistica di notizie di questo calibro, e, perché, quando si parla di Real Cittadella, le occasioni perse iniziano a diventare troppe.

Il complesso infatti risulta essere tra i capofila dei tanti non-luoghi di Messina, ovvero tutti quei monumenti o aree della città che avrebbero un potenziale e una valenza enorme ma che sembrano attanagliate da un maledetto buco nero che inghiotte ogni progetto di valorizzazione del territorio. Inutile soffermarsi ancora una volta sul paradossale valore urbano della Falce di cui la Cittadella è la prima tappa, o, più propriamente prima stazione di una via Crucis che testimonia l’abbandono e la mancata fruizione di un paesaggio unico.

 

L’ORIGINE. Ma perché la Real Cittadella rappresenta il paradigma della storia e dei problemi atavici della città dello Stretto? Prendendo lo scenografico spunto de l’expanding brain meme, se un po’ per tutti il momento chiave della decadenza di Messina è il sisma del 1908 e per qualcuno è quello del 1783, per coloro abituati a scavare più a fondo nella travagliata storia locale scansando tutti i rischi di farsi i buridda fracidi, questo atto ricade indubbiamente nella fallita Rivolta Antispagnola di Messina. Correva l’anno 1678, e, a seguito della pace di Nimega, Messina fu riconsegnata dalla Francia del re Sole alla Spagna, dando l’inizio a una sanguinosa repressione che tra le altre cose vide cancellati i privilegi acquisiti dalla città e provocò la diaspora della classe dirigente e di tutti i cittadini più illustri che appoggiarono la rivolta. Il viceré Don Francesco Benavides, “coordinatore” della repressione, ordinò la costruzione di una poderosa fortezza pentagonale e bastionata nella penisola di San Raineri, assecondando l’esigenza di una nuova tipologia difensiva da implementare ai più obsoleti forti Gonzaga, Castellaccio e Matagrifone.

In tale ottica politico-militare il prototipo di cittadella secentesca riveste, nell’epoca dei sovrani assoluti, di cui la dinastia asburgica e i Borbone di Francia furono i più lampanti esempi, l’esempio di una necessità bellica tendente alla repressione e allo stretto controllo del suo territorio più che per la sua difesa; fino al secolo precedente le fortificazioni erano infatti legate strettamente alla difesa della città e della sua popolazione (vedasi le mura di Carlo V). Negli stessi anni il modello si diffuse a macchia d’olio in tutti gli stati italiani e non controllati dall’impero asburgico così come nei territori francesi, belgi, e fiamminghi; aree in cui i grandi eserciti europei si spostavano come pedine sulla grande scacchiera di un teatro divenuto ormai internazionale, così come dimostra il triste epilogo della rivolta cittadina, il cui destino fu sommariamente deciso da una trattativa svoltasi in Olanda.

Fu incaricato del progetto l’ingegnere militare tedesco Carlos de Grunenbergh, autore di altre fortificazioni alla moderna di ultima generazione in altre piazzeforti della Sicilia come Trapani, Siracusa e Catania, prima di spostarsi a Malta dove riorganizzerà le linee difensive dei Gerosolimitani. Tornato in Sicilia per gestire la ricostruzione post sisma 1693, concluderà la sua vita proprio in riva allo Stretto, venendo sepolto presso la chiesa di San Giovanni di Malta. La fortezza, nettamente isolata dalla città e nella strategica posizione sulla lingua della Falce a cavallo tra le acque dello Stretto e del porto, aveva il duplice scopo di difendersi dagli attacchi da terra e da mare. L’effettiva efficacia nel caso di attacchi da terra fu necessaria radendo interamente al suolo il prospero quartiere di Terranova, situato tra la penisola di San Raineri e l’area del palazzo Reale, che ospitava prima di allora numerosi conventi e palazzi.

OPERA DEL SUO TEMPO. L’architettura rispecchiava perfettamente la tipologia più matura e imponente della fortificazione alla moderna tradotta nelle ultime sperimentazioni di scuola francese, che rendevano la fortezza sostanzialmente imprendibile, dotata di una pianta pentagonale circondata interamente da fossati navigabili. Da sud-ovest, verso la terraferma, era situata la prima linea di fortificazioni con il rivellino di Santa Teresa, fortificazione indipendente a pianta triangolare, dai cui lati svettano a guisa di tenaglia le due controguardie di San Carlo e Santo Stefano, a protezione dei due bastioni omonimi.

Oltrepassato il primo rivellino, ci si imbatteva nell’avanti cortina anche detta opera a martello. Sul lato opposto, verso la lanterna, si trovava l’altro rivellino, detto della Grazia, a protezione dei bastioni di San Francesco e di San Diego, sprovvisto però di controguardie per via della già adeguata protezione offerta su quel lato dal forte del Santissimo Salvatore. Il bastione Norimberga rappresentava invece la “punta” del pentagono ed era rivolto verso la città. Quest’ultimo, insieme agli altri due bastioni orientali, erano sormontati da una struttura a torre circolare, detta cavaliere, mentre gli altri due bastioni, di Santo Stefano e San Carlo, presentavano una sovrastruttura poligonale, adibita a polveriera. I due ingressi principali alla Cittadella attraverso i muri di cortina avvenivano attraverso Porta della Concezione e Porta Grazia, gioielli del tardo Barocco opera dei maestri messinesi Biondo, Amato e Viola. Queste racchiudono in esse tutta la ricchezza e varietà ornamentale impossibili da esprimere nelle altre strutture del complesso impostate nella rigidità e fermezza dell’architettura militare.

All’interno delle cortine, nella piazza d’armi, erano infine edificati i padiglioni trapezoidali ospitanti le caserme, con la caratteristica balconata sorretta da cagnoli; dei cinque previsti da progetto, probabilmente solo due vennero edificati. Lungo il perimetro, attorno ai fossati, opere di falsabraca, spalti, casematte e cisterne completavano la fortificazione che di fatto risultava imprendibile via terra e via mare; le bocche di fuoco erano distribuite lungo le troniere poste in cima ai parapetti dei bastioni e delle falsebrache, garantendo una completa risposta offensiva di concerto con le casematte. I lavori, iniziati nel 1680, vennero ultimati definitivamente nel 1686. Lo stesso Grunebergh sovrintese personalmente i lavori lasciandoci preziosi disegni constatanti i progressivi stati dei lavori, oggi conservati presso l’Archivio General di Simancas a Valladolid.

Nel corso degli anni a venire il complesso fu interessato da numerose aggiunte e ammodernamenti, a partire dagli episodi della guerra di Successione spagnola e dalla Guerra della Quadruplice Alleanza (1717-20), che vide la fortezza assediata da parte degli austriaci. Nel 1770 fu iniziata la costruzione della lunetta Carolina, ancora oggi ben visibile, a difesa della zona mostratasi più debole in occasione degli assalti precedenti. L’ultimo assedio patito dalla Real Cittadella fu la celebre resistenza degli ultimi soldati borbonici comandati da Gennaro Fregola che si arresero alle truppe garibaldine del generale Cialdini il 12 marzo 1861.

 

 

IL DEGRADO. Da questo momento, depauperato dalle funzioni belliche originarie, iniziò la seconda vita del complesso. Mentre in tutta Europa mura e fortezze venivano demolite per lasciare il posto ai moderni boulevards e ai giardini della nascente città borghese, anche a Messina si aprì il dibattito sul destino di questo ingombrante agglomerato.

Le cronache dell’epoca riportano come molti cittadini ne caldeggiavano la demolizione proprio per via del nefasto retaggio storico che essa rappresentava, sintomo di un sentimento revanscista, anche legittimo, che ebbe eco in città già dall’abbattimento della statua equestre di Carlo II presso piazza Duomo durante i moti del 1848, fino agli ultimi effluvi occorsi giusto un paio di anni fa con la vibrante polemica in merito alla rimozione della riproduzione del dipinto Messina restituita alla Spagna presso le sale di Palazzo Zanca.

La fortezza resistette alla furia ideologica e anche quella tellurica del fatidico 1908, ma non potè opporsi alla furia cieca della “città che sale” di inizio ‘900: il progetto dell’attività portuale come principale asset della rediviva città non poteva prescindere dallo sfruttamento intensivo della Zona Falcata, la quale presentava questo ingombrante ostacolo, legato a tempi storici oramai andati, nel contorno più ampio e desolante di una città la cui storia era stata integralmente cancellata pochi decenni prima. Le prime demolizioni interessarono l’intera porzione settentrionale del complesso, dal bastione Norimberga, sostituito dal molo omonimo, e dai bastioni San Carlo e San Francesco, che non fecero in tempo a testare per un ultima volta la loro arcigna solidità contro gli ordigni del ‘43.

Dal dopoguerra in poi si mise in atto un incontrollato e scellerato saccheggio del territorio ben lontano dai programmatici interventi di natura industriale e commerciale che in qualche modo avevano “giustificato” le prime demolizioni. La demolizione della cortina orientale che comportò nel 1961 lo spostamento di Porta Grazia nell’amena posizione attuale di Piazza Casa Pia, fu dovuto ad un impianto di cantieristica navale mai entrato in funzione. A ciò si aggiunsero come veri e propri elementi infestanti il degassificatore Smeb e lo squallore del famigerato “Real Inceneritore” smantellato solamente nel 2017. Un terreno di conquista, insomma, preso di mira da quei blasfemi relitti figli di una supposta era industriale mai realmente iniziata e dissoltasi ben più in fretta delle secolari muraglie da essa aggredite. Tonnellate di ruggine, rottami e rifiuti di ogni tipo si confondono e si mescolano a spalti e marcapiani come moderni cavalli di frisia, amalgamando pietra e catrame, mito e posticcio, tragedia e farsa.

Un luogo, la Falce, la lingua phari, troppo sacro per poter essere abitato dagli uomini, e troppo prezioso per non esserne violato; oggi i baluardi e i fossati sono stati sostituiti dal solco invalicabile della linea ferroviaria e dall’ostilità di un’area urbana, l’asse San Raineri-don Blasco, che di urbano ha ben poco: il sopraggiungere volontariamente dalla città è di per sé da interpretare come atto di poliorcetica, innaturale incedere in territorio percepito come “nemico” difficile da concepire se non si è sospinti dalla volontà di conquistare, con lo sguardo e con lo spirito, ciò che sta “oltre”.

Superate quelle mura, ci si ritrova immersi in uno spazio senza tempo, dove si ha modo di concepire appieno il significato geografico e storico del destino di Messina, di quel porto naturale che diede il nome a Zancle, di quei palazzi sul mare incorniciati dai peloritani, di quel silenzio interrotto dal vento incostante che filtra attraverso le gallerie e fa danzare i tappeti di stipa in accordo con le onde del mare. Profondi buchi nel terreno indicano la presenza di volte cedute che risorgono come tholos, qua e là riemergono enormi portali parzialmente sepolti, ritrovandoci faccia a faccia con i loro mascheroni posti in chiave d’arco, dandoci la sensazione di ritrovarci nani su spalle di giganti.

 

PROPOSTE DI RECUPERO (VEROSIMILI). Il progetto di recupero della Real Cittadella non può prescindere dal riconsegnare l’affaccio a mare maledettamente negato alla città integrando preesistente storico-architettonico alla bellezza paesaggistica intrinseca del luogo. Tutto il resto è contorno. Di progetti visionari ne abbiamo visti tanti e sono tutti bellissimi, non c’è che dire, ma bisogna essere concreti, e ha poco senso tentare di infilare con forza visioni di palazzi e distretti direzionali; queste visioni apparterranno al futuro, ora è necessario progredire passo dopo passo, valutando intenzioni realistiche e attuabili, per non rimanere imprigionati al concetto di “città dei rendering” (che tali rimangono) e in trepida attesa del “messianico” progetto faraonico in grado di rivoluzionare magicamente il territorio, l’economia e la comunità. Il primo obiettivo è quello di riappropriarci dell’area e del suo valore intrinseco, paesaggistico e storico, tenendo fermo il fatto che il buon 60% del complesso è stato demolito e mai sarà ripristinato nella sua integrità architettonica, e parte di quello che rimane è sepolto da 4-5 metri di sabbia e terreno di riporto; nessuno ha intenzione di mettersi a ricostruire i bastioni perduti o a prendere possesso di quelle aree che appartengono al porto o a corpi militari.

Risulterà necessario e forse sufficiente riappropriarsi di quelle aree dismesse e in degrado, bonificarle, condurre una campagna di scavo per riportare le strutture alla loro quota originaria e liberarle da tutte quelle superfetazioni aggiuntesi, predisporre un intervento diffuso di risanamento conservativo delle murature esistenti mettendo in sicurezza gli spazi voltati e le strade coperte, approntare, mantenere e gestire gli spazi a verde, organizzare la componente attrattiva allestendo quantomeno un padiglione per eventi e fiere, organizzare la viabilità generando un percorso attrattivo: tanto sappiamo tutti che tra 4-5 anni, quando sarà finalmente realizzato il Ponte sullo Stretto la stazione sarà spostata più a sud e potremo ricucire finalmente lo strappo urbano tra città e area falcata con parchi e architetture di pregio. The end. (ci avevate creduto? Ah no?).

Programmi irrealizzabili a parte, il rischio principale è che questi 20 mln già in saccoccia potrebbero non bastare per destinare all’area della Real Cittadella il prestigio e la dignità che merita. Per fare un paragone squisitamente quantitativo, per il restauro e restyling della Fortezza da Basso di Firenze, sono stati recentemente stanziati 140 mln di euro (compresa tuttavia la costruzione di organismi architettonici ex-novo a destinazione espositiva), ma per un complesso già totalmente fruibile e in ottimo stato di conservazione. Il recupero della Real Cittadella è invece una montagna ancora tutta da scalare: bisogna ammetterlo, gli scavi per liberare l’area, oltre alle indagini di natura archeologica previste nel Documento di indirizzo preliminare, ovvero i primi interventi basilari da effettuare, fanno trasparire all’orizzonte un caleidoscopio di permessi, valutazioni ambientali, ingorghi burocratici e lievitazioni dei costi tali da far rischiare di impantanare chiunque sia dotato di buone intenzioni; i restauri architettonici sono un grande punto interrogativo date le pessime condizioni delle murature e l’entità delle porzioni interne che si deciderà di rendere effettivamente fruibili, per non parlare della gestione e della progettazione di quello che si prospetta essere il parco urbano da generarsi.

Buttando su carta un rapido masterplan, l’area di intervento non potrà non essere circoscritta tra l’attuale via San Raineri e la Costa, e, nella migliore delle ipotesi, estendendo l’area di progetto fino a lambire la Lanterna del Montorsoli.

Di difficile realizzazione, seppur molto accattivante, è l’idea di ripristinare i fossati o una qualsivoglia canalizzazione, grande leitmotiv dei tanti progetti di recupero. Una bella sfida insomma, ma un passo importante, anche simbolico, che è necessario fare e per cui, stavolta davvero, i tempi sono maturi. Sia dal punto di vista economico e programmatico che, soprattutto, civile: negli ultimi anni si è assistito a un risveglio di coscienze che ha, almeno dal punto culturale, riacceso i fari sull’importanza storica e urbana della Real Cittadella; è impossibile non ricordare l’impegno assiduo e costante del compianto Franz Riccobono che ha avuto il brillante merito di portare direttamente i messinesi sul posto ad ammirarne la valenza storica e monumentale e il commuovente dialogo col paesaggio dello Stretto.

L’austera fortezza, figlia dell’assolutismo asburgico, era puntata contro la città soffocando con la sua mole i malcontenti. Adesso che proprio le sue cortine di terra sono state spazzate via, rimangono in piedi solo i versanti che danno verso lo Stretto. Ribaltando l’archetipo della fortezza, riusciamo a invertirne il significante e significato, cogliendo significativi parallelismi: la breccia è ormai aperta e la fortezza non punta a schiacciarci ma a liberarci, ovvero a riprenderci una volta per tutte il dialogo con il nostro mare, da tempo negato. All’indomani del terremoto, il simbolo di questo rapporto felice tra mare e città, il Nettuno del Montorsoli, era stato disgraziatamente ruotato, dando irrimediabilmente le spalle, e le natiche, a Messina, la quale aveva imparato a temere e a repellere il mare. Sarà proprio il nefasto simbolo della repressione e del despojo di Messina a farcelo amare nuovamente? Chi vivrà, vedrà.

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