Dunque, metti che mi sveglio una mattina pieno di dolori, diciamo tutto incrocchiato. Si tratta evidentemente dei “piccoli dolori” di cui canta De Gregori, quelli che si accumulano pian piano e che ci portiamo dentro man mano che la vicchiaglia avanza, arrivando perfino ad amarli. Solo che stamattina mia moglie (la santa che mi vive accanto) mi suggerisce di farmi una sana camminata a piedi per rimettermi in sesto. Quindi, superando la tendenziale pigrizia, mi metto in pantaloncini, maglietta leggera, occhiali da sole e cappellino di paglia, e m’incammino verso la pista ciclabile, che già ad arrivarci dalla Panoramica è un tratto mica male. E quivi giunto inizio a camminare.

Fratelli, non basterebbe la fantasia di George Lucas o di James Cameron per descrivere questa odissea, lungo la ciclabile sino a giungere prima del Trocadero, poi risalendo dal torrente Pace per evitare l’eccessivo dislivello e percorrendo la Panoramica fino a casa!

Cosa ne ho ricavato dalla lunga passeggiata? Che la mia città è un’enorme pattumiera a cielo aperto. Lungo l’intero tragitto mi sono imbattuto in migliaia di bottiglie di plastica (acqua) e di vetro (birra), di lattine (bibite o birra), di cartacce ormai imputridite da pioggia e sole, di indumenti appallottolati, di pezzi igienici, di lacerti di varia mobilia, di sacchetti di spazzatura, di giocattoli rotti, elettrodomestici, e aghi di pino, aghi di pino, aghi di pino….

Su tutto dominano però le infiorescenze. Erbaccia a tinchitè, ma anche vere e proprie piantagioni di arbusti di diversa specie (sono ignorante in botanica) cresciuti spontaneamente in tutti gli interstizi della strada, la cui principale vocazione pare essere la lenta distruzione dei muretti, dell’asfalto, dei percorsi tracciati dall’uomo.

È una lotta impari, sembra quasi che la natura abbia preso gusto a celebrare una continua rivincita sulla cultura, anche perché, come emerge dalla superiore sommaria enumerazione di munnizza, l’uomo (leggi: i messinesi) ha preso anche lui gusto nel disseminare i cascami purulenti della propria civiltà (!) dappertutto purché fuori casa e ben lontani dai luoghi deputati ad accoglierli.

Da cosa deriva, mi sono chiesto sgomento, questa pervicacia dei miei concittadini ad avere in sommo odio tutto quanto sia bene comune? Quale cecità ha colpito i messinesi (altro che Saramago!) nel non comprendere che queste migliaia di scarti sono destinate a diventare milioni, che ci sommergeranno ben presto riducendo la città a un enorme agglomerato di discariche?

Si badi bene, non imputo all’Amministrazione attuale colpe particolari. Al pari delle precedenti, non riesce a gestire le risorse umane e i mezzi di cui dispone. Questa sarebbe infatti per Messina l’unica vera Grande Opera! Impegnare per un anno tutte le risorse per liberare la città dal pattume che la soffoca, a cui magari ci saremo anche abituati ma che agli occhi di chi viene da fuori ci equipara (tutti, non solo gli incivili) a dei selvaggi. Dei cattivi selvaggi, non quelli buoni di Rousseau.

Il mio amico Nino Principato ama spesso parlare dei “primati messinesi”, come di una realtà che dovrebbe farci sentire tutti più orgogliosi e paghi di vivere nel migliore dei mondi possibili. Sarà anche vero, ma è altrettanto indubbio che tali primati vanno fatti risalire assai indietro nel tempo, forse a quando Cervantes e Shakespeare (ille dixit!) calcavano queste plaghe.

Quello che oggi viceversa appare agli occhi di qualunque spettatore disincantato (ossia libero dall’incanto della “messinesità”) è il ritratto di una città sempre più non-luogo, prigioniera di nuovi vizi e di antiche turpitudini, letteralmente sotto sequestro di alcune dinastie imprenditoriali e politiche che l’hanno spremuta come un limone senza minimamente contribuire a che se ne aumentasse di un palmo la qualità della vita e la coscienza civica di chi la abita.

Mi piace qui richiamare alcune lunghe ma dense considerazioni svolte negli anni sessanta da Alessandro Pizzorno (Familismo amorale e marginalità storica, ovvero perché non c’è niente da fare a Montegrano, in “Quaderni di Sociologia”, 3, 1967), in dialogo con Edward C. Banfield (che ha coniato quel termine divenuto famoso):

“(…..) La sede del progresso storico (…) è là dove si elaborano i valori che contano per tutti, anche per coloro che stanno ai margini; è là dove si realizzano i successi individuali misurati in quei valori; è là dove si fabbricano i nuovi beni che soppiantano gli antichi; è là dove sta chi ha il potere; è là dove chi può cerca di arrivare. Quest’ultimo indicatore, quello empiricamente più accettabile, ci suggerisce che si possono forse distinguere due tipi del progresso storico: quello dove si affermano i valori accettati, e quello dove si svolgono i tentativi per creare nuovi valori. Queste ultime sono le terre del pionierismo, dove appunto si sceglie di andare (…..) Quando non c’è impresa pionieristica (…..), o quando non c’è sistemazione di progresso autogenerantesi, c’è marginalità storica (…..). Cioè un luogo dove qualsiasi localizzazione produttiva è anti-economica, nel senso rigoroso e tecnico della parola (…..); un luogo dove qualsiasi progetto personale di carriera, di successo, è un non-senso; un luogo dove giungono da ‘altrove’, pagati a caro prezzo, i prodotti patinati della società industriale e i favori untuosi della società politica; e soprattutto un luogo dove anche l’analfabeta ha precisissima consapevolezza di ciò (e come potrebbe non averla?); e questa consapevolezza peggiora la situazione, perché significa che conosce, e quindi in qualche modo accetta di misurarsi secondo i valori di ‘altrove’ sapendo che non riuscirà mai a possederli. Insomma un luogo dove qualsiasi sforzo arriverà solo a sistemare la miseria, ad ammobiliare l’inferno”.

Sarà dunque per questo che tanti messinesi deturpano il proprio territorio, perché si rifiutano di “ammobiliare l’inferno”?

C’è un’altra voce che può servire a darci una risposta possibile, ed è quella, alta e civile, di Italo Calvino:

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Subscribe
Notify of
guest

1 Comment
meno recente
più recente più votato
Inline Feedbacks
View all comments
Santa
26 Agosto 2019 6:22

Piace che qualcuno si accorga dello sfacelo di questa città, penso che si dovrebbero educare i cittadini a rispettare non solo la città ma anche loro stessi si dovrebbe recuperare la dignità di cittadini e insegnare ai propri figli che la città è un bene comune lasciando pulito il proprio spazio senza lasciare escrementi di cani e gatti davanti ai portoni altrui.