MESSINA. Cima del monte che domina a Sudovest lo Stretto e la città di Messina, il cui nome è attribuito alla vetta (m. 1279) della giogaia peloritana che, estesa ad arco dal fiume Alcantara alla rocca di Novara, caratterizza l’estrema cuspide nord-orientale della Sicilia in un variegato contesto di picchi rocciosi, colline, fiumare e piccoli centri abitati.

Storici riferimenti onomastici di Dinnammare, oltre la generica denominazione di Magnum Montem raccolta da una bolla ruggeriana (a. 1130) e compendiata da Rocco Pirri nella Sicilia Sacra (1733), emergono da uno spulcio della storiografia siciliana e da una lettura di antiche carte geografiche. Giuseppe Carnevale spiega (1591): Dimmari […] per la grande quantità di Daini che ivi furono come Solino nell’undecimo racconta. Anche Placido Reina nell’introduzione alle Notizie istoriche della città di Messina (1658) ribadisce: […] il monte posto su’l territorio di Messina [è] detto corrottamente Dinnammare dalla voce damarum che in Latino suona delle damme, o vero de’ daini, che in esso vi erano. Vito Amico ricalca ne Dizionario Topografico (1855) la suggestiva paraetimologia: Bimari. Lat. Bimaris. Monte, volgarmente Dinnamari, dagli antichi Saturnio, sulla spiaggia di Messina, cosi detto perché dalla sua più alta vedetta, secondo malcuni, sovraneggia due mari, il Tirreno ed il Jonio. È parere però di altri dirsi Dinnamari, o monte delle damme, perché le sue parti selvose e scoscese abbondano in damme. Deriverebbe così il toponimo dalla cospicua presenza di daini, sulle pendici del monte fino alla marina, con lettura (poco verosimile) di damnae mari, ‘daini a mare’.

Trascrive invece Antonino Mongitore (1742): Monte altissimo, otto miglia da Messina distante, che negli antichi tempi avea in cima una torre di guardia, in cui vegliavano le sentinelle per spiare i due mari Tirreno ed Adriatico, onde acquistò il nome Dinnamare, corrotto dal latino Bimaris. Singolare è il commento al nome del monte di Giuseppe Vinci (Ethymologicum 1759): Il territorio di Messina, dal Peloro al promontorio Argennum, è cinto da una giogaia di monti, la somma altura è chiamata dinnamari. Samperi ritiene che il suo nome sia bimaris, poiché si prospetta sull’Jonio e sul Tirreno. Mi è invece sospetto che sia stato detto dinamis Aris ovvero robur Aris, per il gravoso impegno di ascendere a quella altezza. Più organica è la scheda elaborata da Michele Pasqualino (1786): Dinnammari, monte altissimo nel fianco di mezzo giorno, circa otto miglia distante da Missina, nella di cui cima fu in quei primi secoli edificata una torre di guardia, dove vegliano di continuo le sentinelle per guardare l’uno e l’altro mare, Tirreno e Adriatico, nella quale coll’andar del tempo disfatta, i Messinesi per loro divozione eressero un divoto sacrario collocatavi l’Immagine di Maria Vergine nominata la Madonna del monte Dinnammare  […] moder. Bimaris Samperi, Dimmaris Fazello detto dal Lat. bimaris. Corrotta questa voce dal volgo dinnammari quasi monte di due mari, mentre signoreggiava entrambi, molto più significando torre s’intende che guarda l’uno e l’altro mare. Tanto suggestiva (quanto improbabile) è la ripetuta trascrizione monte de Namari leggibile in alcune importanti carte geografiche della Sicilia. Tra tutte si evidenziano le seicentesche incisioni pubblicate da Giovanni Antonio Magini, Gerard Mercator, Wilhem e Joan Blaeau. Distinguibili, per le semplici annotazioni M. Namari e Namari Mons, sono le carte di Philippe Briet e di Theodorus Danckerts. È da segnalare il commento di Michele Amari (1880) sulla possibile identificazione di Dinnammare con il monte Miconio. L’arabista ne svolge l’ipotesi nella Biblioteca arabo-sicula in appendice ad una elaborata nota sulla fortezza di Miqus: Miqus […] torna tra le dette valli e per l’appunto su la via che mena da Rametta alla marina di Mili, tra Taormina e Messina. […] mi sembra che potremmo supporre la fortezza di Miqus vicina al monte Miconio, se intendessimo sotto questo nome l’alta montagna Dinnamare erroneamente scritta Antenna a mare nella carta del 1867 […].

Ne riparla Carlo Alfonso Nallino commentatore di Michele Amari nella seconda edizione della Storia dei Mussulmani in Sicilia (1933 – 1939): L’A. vocalizzò Miqus e se ne occupò nella lunghissima nota I, 118-119, concludendo per la possibilità che quella fortezza fosse vicina al monte Miconio degli antichi, ora Dinnamare (ufficialmente Antennamare), monte che domina il Mar Tirreno e lo Stretto di Messina ergendosi ad est di Rametta (ora Rometta) e ad ovest sud ovest di Messina. Girolamo Caracausi ha, più di recente, declinato il tema del monte: Antennamare, forma corrotta per Dinnamare, con influsso di it. Anténna (sic. ‘ntinna); Bimari, lat. Bimaris, volgarmente Dinnamari, monte presso Messina, Dimmari, Bìmari, gioghi di monti da Peloro alla Piana di Milazzo; Dinnamare, ufficialmente Antennamare, è l’antico nome del monte Micònios, Dinna Mari. Infine una nota di Jeannette Power (1842), di modesto interesse toponomastico ma rilevante per il garbato commento della giornalista franco-inglese sulla suggestiva geografia (e soprattutto botanica e mineralogia) della montagna: Bimari o Dinnamari. Questo monte è così nomato perché guarda i due mari Jonio e Tirreno. Contiene marmi, e vari minerali ed insetti, fra quali bellissime farfalle; si trovano tartarughe ed altri rettili e si fa la caccia a volatili e a quadrupedi. Di questi ultimi non vi hanno che lepri, conigli, volpi e qualche martora; vi vegetano pure delle piante interessanti pel botanico.

 

Charles Du Cange signore du Fresne (1610-1688), erudito francese, spiega la glossa “Dynamarion” con il compendio di alcuni brani tratti dalla letteratura bizantina chiarificatori del significato del raro vocabolo. Dinamarin è descritto come un  locus munitus, un’area fortificata ma ridotta nell’estensione come è comprensibile nelle pertinenze spaziali della vetta di un monte, caratterizzata dalla presenza di una specula, una torre di guardia frequentata da speculatores, prospectores, militi preposti all’ispezione visiva permanente sui versanti e sulle marine ioniche e tirreniche con compito di segnalazioni alla sottostante città di Messina, alle sue numerose Chorìe di settentrione e di meridione, Forìe (casali, villaggi) nella pronuncia tardo greca,  in massima parte di fondazione bizantina, e agli attigui presidi del monte Miconios e della storica motta di Rometta. Giusto questo toponimo, “ta erìmata”, le fortezze, possiede suggestive analogie con Dinnammari. I due limitrofi toponimi sono infatti coevi e paradigmatici della valenza del sito: Dinamarin come ridotto “luogo munito”. L’epoca di fondazione della Specula di Dinnammare è di difficile collocazione storica. Ne è certa la presenza, palese negli scritti di numerosi autori classici da Plinio a Solino, in epoca greco- romana. È poco credibile un suo riutilizzo sotto gli arabi, se non altro per lo scarso ruolo militare che i mussulmani attribuivano a Messina e al suo territorio. Spiega a proposito Michele Amari: I Mussulmani in lor guerre di Sicilia non fecero mai assegnamento sopra Messina, città cristiana, né mai l’afforzarono, né tenervi presidio di momento. La particolare posizione geografica impedì a lungo che Messina, instabilmente araba sin dalla prima conquista nell’anno 842, potesse assolvere la funzione di efficace baluardo della Sicilia mussulmana. La città era infatti circondata dalle montagne saldamente ‘greche’ del Valdemone, isolata per via terra e troppo vicina alle coste della Calabria bizantina per potere divenire una sicura postazione araba. Città aperta e all’occorrenza frettolosamente munita, Messina rimase pertanto, tra il IX e l’XI secolo, la porta socchiusa e mal guardata della Sicilia islamica. La ricostruzione della torre di guardia potrebbe essere quindi ricondotta alla presenza bizantina antecedente alla prima occupazione araba (842-843) o legata ad una delle diverse fasi di riconquista, come quella del 962 condotta da Manuele e Niceta.  È più verosimile che la Specula di Dinnammare sia stata restaurata nei primi decenni della dominazione normanna. Nel 1081, Ruggero provvide infatti, in una pausa dell’offensiva contro gli arabi, a fortificare Messina da lui considerata clavis Siciliae, munendola di un nuovo e possente fortilizio, castellum, non trascurando tuttavia le opere difensive di supporto e di collocazione strategica extra moenia. È significativa, a tale riguardo, la memoria di Goffredo Malaterra (sec XI): Nello stesso anno [ndr. 1081] Ruggero dopo avere stanziato ingenti somme, fece venire da ogni parte esperti muratori e cominciò a costruire le fondamenta di un castello e alcune torri nei pressi di Messina: prepose a questa impresa solerti funzionari con il compito di dirigere gli operai. Egli stesso qualche volta veniva per controllare e così, incoraggiandoli e spingendoli a far presto […]. La fortificazione della città e la fondazione delle torri nei pressi di Messina, oltre che rendere più sicura la postazione in riva allo Stretto, considerata ‘testa di ponte’ dell’invasione normanna, miravano a dissuadere i bizantini dal tentare un colpo di mano, un’aggressione a sorpresa nello Stretto, mentre il fratello Roberto portava la guerra nei Balcani, nel cuore dell’impero di Bisanzio. Lo storico mussulmano An Nuwayri (1280 ca. -1332), affermava con toni incisivi, sintoni alla memoria del Malaterra, che in quegli anni il paese fu ristorato d’ogni parte dai rum i quali riedificarono fortilizi e castella, né lasciarono monte che non v’ergessero una torre. L’importanza militare della vetta è ribadita ancora in epoca moderna nell’ambito della fortificazione ottocentesca dei monti peloritani che i messinesi chiamano familiarmente colli. I forti “umbertini”, così detti dal monarca sotto il quale si progettarono e fondarono, vennero realizzati nell’ultimo ventennio del XIX secolo lungo i crinali dei due versanti, costituendo un esempio forse unico di sistema di fortificazione con artiglieria in posizione. Una sorta di vallo, di “bocca di lupo”, che avrebbe determinato l’aggressione da parte di una flotta nemica che fosse penetrata nelle acque dello Stretto. Tali fortilizi furono costruiti a “mezza costa” ad eccezione del forte di Dinnammare, il più elevato per quota, cui era affidato il ruolo di controllo e di coordinamento dell’intero sistema difensivo dell’area dello Stretto. Il Santuario edificato in cima al monte sulla fondazione dell’antico Sacrario venne demolito nel 1889 per la costruzione di questo fortino e riedificato appena più in basso con lo spianamento dell’attiguo pianoro roccioso.

 

 

Parte di questo contributo è stato pubblicato sulla rivista Messina Medica.

A cura di Carmelo Micalizzi, medico e scrittore. Classe 1953, ha pubblicato un centinaio di saggi, articoli e contributi sul territorio dello Stretto. Particolare riguardo ha dedicato alla Toponomastica storica peloritana e alla Storia della Fotografia messinese (dalle origini al 1908). Ha dato alle stampe due monografie su Antonello da Messina (2016, 2018). Cura la rubrica “Questioni di Lingua” per «Messina Medica 2.0», rivista on line dell’Ordine dei Medici della Provincia di Messina.

 

 

2 Commenti
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Alessandro
Alessandro
17 Maggio 2020 12:00

“la storica motta di Rometta”. Vi tocca quindi spiegare le varie Motte presenti sui colli.
Articoli sempre belli e utili.
Grazie, Alessandro

Alessandro
Alessandro
17 Maggio 2020 12:39

Scusate, sono “le Masse”, non motta, la spiegazione è sempre utile.
Alessandro