Sempre e per sempre: questa introduzione viene scritta dopo aver messo in fila le cinque canzoni che vi propongo quest’oggi per colorire il vostro lunedì, perché mi sono accorto a un certo punto che stavamo puntando in altissimo. È una giornata particolare e per questo partiamo con l’omaggio, giusto e doveroso, a Luigi Tenco, perché è giusto ribadire che non sono solo canzonette e che in tanti ci hanno messo tutto quello che avevano in questa faccenda della musica. E oggi parliamo di loro, anche di questo fatto, perché se siete qua ogni lunedì anche voi sentite questo legame, anche voi cercate qualcosa in più, un brivido particolare che può venire da una nota o da un verso, o da un ricordo legato a una canzone. Un ricordo che vivrà sempre e per sempre. Questi i brani di oggi, buon ascolto a tutti.

Luigi Tenco – Ciao amore ciao

 




 

E si parte da qui, perché ieri era l’anniversario della morte di Luigi Tenco. Una morte nata anche da questo brano, dalla sua esclusione da Sanremo nel 1967. Poi che Tenco si sia suicidato o, come sostengono altri, sia stato ucciso, non è dato saperlo. Il piemontese, secondo il modesto parere di chi verga queste righe, è stato il più importante cantautore di sempre nel nostro paese per una voce unica e per una mission in cui ha creduto con tutto se stesso, una voglia di dare peso a cultura e musica, a inserire contenuti non banali nella propria arte. Cantando l’amore, cantando la vita, cantando la morte. Sempre con uno stile inconfondibile, sempre con una profondità sentimentale sicuramente poco comune non solo ai suoi coetanei, ma anche a quasi tutti quelli che l’hanno succeduto negli anni. Unico, per sempre.

 

The Cure – Lullaby

 

 

Ma secondo voi è possibile usare la frase “torniamo ai giorni nostri” parlando dei Cure? Ebbene sì, dato che come scritto ieri proprio su Lettera Emme la band di Robert Smith era l’ospite internazionale che avrebbe dovuto utilizzare il San Filippo per un concerto estivo. In questi mesi erano circolati miliardi di nomi, mai il loro se non per qualche boutade, ma è un rimpianto enorme non aver portato un pezzo enorme di storia della musica nella nostra città. Per omaggiarli li mettiamo in playlist con il brano probabilmente più famoso di quello che a mio giudizio è il loro disco più bello, perché per descrivere Disintegration mi viene solo in mente una sfilza di onomatopee tipo WOW e cose così. Disco della vita? Disco della vita.

 

Red Hot Chili Peppers – Scar Tissue

 

 

Piccola precisazione: prima di scegliere i brani mi ero appuntato due o tre nomi da inserire, poi ho visto come ho iniziato e ho capito che li avrei sminuiti troppo, per cui mi toccherà tenere il livello altissimo. Questo pensiero si adatta bene a un singolone tratto dal penultimo bel disco dei Red Hot Chili Peppers, che se avessero smesso di fare dischi dopo By the way io personalmente non portavo particolare rancore. Scar tissue è una ballata emozionante tratta da Californication, probabilmente un viaggio nell’esperienza di John Frusciante che rientrava nel gruppo dopo aver combattuto qualche cattiva abitudine. Se vi sentite un po’ così (“ma cosa intendi per così?” “eh, così”), allora è il giorno giusto per condividere anche voi questa vista solitaria con degli uccellini.

 

Kasabian – Goodbye Kiss

 

 

Resta livello altissimo, anche se magari passiamo da dei mostri sacri a una band sicuramente meno “pesante”, ma fortunatamente qua non conta il nome ma la musica, e quella i Kasabian la sanno fare benissimo. Una delle scoperte live più piacevoli della mia vita, dato che non mi sarei mai aspettato un’energia così esplosiva e un’intimità intensa specie durante l’esecuzione di Goodbye Kiss, il brano che oggi ci ascoltiamo in playlist e che farà innamorare di Sergio e Tom chi ancora non li conosce. Due rocker veri, molto diversi tra di loro, uno più di impatto, showstealer e al centro dei riflettori, l’altro abile nel ricamare melodie e a rubare di tanto in tanto la scena. Non il gruppo migliore di sempre ma, ehi, mica possiamo restare fermi agli anni ’80 per sempre.

 

Mother Love Bone – Crown Of Thorns

 

 

E si chiude con un classicone senza il quale difficilmente avrei iniziato ad ascoltare musica. Non perché io a 14 anni mi ascoltassi i Mother love bone o mi sarebbe piaciuto, intendiamoci, ma l’internet degli albori non permetteva ancora tutta questa possibilità di esplorare la storia delle band; no, non avrei mai iniziato davvero perché senza i Mother love bone non ci sarebbe stato tutto quello che amo. Non sarebbe esistita, perlomeno non così, la scena di Seattle, non avrei mai conosciuto Andy Wood, un personaggio meraviglioso che rivoluzionò un modo incazzato di fare musica mettendoci dentro l’ingrediente più puro: se stesso, i suoi sentimenti, tutto quello che aveva dentro. Andy Wood morì giovane, dopo un solo disco, da lì nacque il side project Temple of the dog (omaggio proprio a Wood con un Cornell immenso) e i Pearl Jam. È storia, e ogni tanto dobbiamo riprenderla, ripassarla, capire quanto le dobbiamo.

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