Forse perché memore del fatto che avessi firmato la prefazione del noto libro di Gino Sturniolo e Nina Lo Presti, “Assolto per non avere compreso il fatto”, oppure che fossi stato un critico seriale delle politiche urbane della Giunta Accorinti, il direttore di Lettera Emme mi ha chiesto di intervenire sulle recenti vicende giudiziarie che hanno colpito l’ex sindaco e i suoi collaboratori.

Non avevo molta intenzione di scrivere alcunché. Dalla prospettiva antagonista da cui osservo la politica, oltre che dal punto di vista personale, trovo infatti la vicenda triste e non credo che sia appassionante saltare in simili vicende senza avere, peraltro, niente di troppo originale da dire. Quello che tuttavia mi ha convinto a scrivere qualcosa è stato il video, in cui Cateno De Luca suggerisce la lettura di “Assolto per non avere compreso il fatto” come testo fondamentale per comprendere la natura ultima dell’amministrazione Accorinti.

Sapevo benissimo nell’attimo in cui accettai di firmare quella prefazione, che questo libro sarebbe stato cavalcato da destra. Ossia da una parte che non aveva assolutamente nulla a che fare con me così come con Sturniolo e Lo Presti. Trovavo tuttavia che il testo permettesse, letteralmente, di regolare i conti a sinistra. Di rendere cioè chiaro il senso di delusione e la distanza che ormai separava la giunta dalla base sociale maggiormente ideologizzata di cui facevo parte. Ma credo che quel libro fosse – e almeno per me tale resta – un discorso interno alla sinistra. Certo è comunque che, nel momento in cui escono, i libri smettono di appartenere agli autori e agli ambienti che li hanno prodotti e possono essere adoperati da chiunque, anche a fini strumentali.

Ma resta pure il fatto che quel libro, pur così documentato, non esaurisce le questioni e non rende giustizia del senso complessivo di quell’esperienza politica. È un libro, insomma, che va dritto al cuore di una questione fondamentale e ineludibile: la gestione del debito. È, inoltre, un testo che suggerisce finalità e beneficiari di quella scelta così divisiva che consistette nella rinuncia a perseguire il default e nell’ostinazione a ricercare la via di un difficile risanamento.

Tuttavia, come dicevo, è un libro che lascia fuori una serie di altri problemi interni alla cultura politica e alle personalità di quella Giunta. Il fatto, cioè, che molte delle azioni compiute – in primis quelle relative alle scelte e alla gestione di bilancio – significarono cose differenti per differenti persone. Ovvero che la differente confidenza con l’arte dell’amministrazione fece sì che le volontà, le interpretazioni e i significati di deliberazioni e voti fossero differenti per ciascun attore in ragione delle conoscenze e competenze di cui disponeva e che, verosimilmente, alcuni di essi hanno maggiori responsabilità di altri rispetto a certe risoluzioni. Dunque assolti, almeno alcuni, per non avere compreso il fatto. Certo. Mai, in effetti, titolo fu più azzeccato.

Ma questo significa anche che l’esperienza di Accorinti non possa essere liquidata sul piano storico come una vicenda amministrativa qualsiasi. Una di quelle, insomma, che ha coinvolto altri sindaci giunti sulla scena prima del nostro professore di educazione fisica. Quella della giunta presieduta da Accorinti è stata infatti una grande utopia urbana arenatasi sul fronte della realtà. Quell’esperienza populista di sinistra, inseguendo un discorso di retroguardia molto diffuso all’inizio di questo decennio, per mano soprattutto del Movimento 5 Stelle, ha fondamentalmente finito con l’accettare l’ipotesi che l’amministrazione di una città potesse essere condotta da “uomini nuovi” esterni alla politica.

Questo discorso – accettato forse per mero tatticismo, ma poi interiorizzato – ha sottovaluto la solidità di un dispositivo istituzionale ideato per resistere agli scossoni di chi volesse abbatterlo per motivi più o meno giustificati, oltre che regolato da vincoli e norme bizantine che non si apprendono in un sol giorno. Un dispositivo gestito inoltre da quei terribili, ma necessari, concorrenti della politica che si chiamano burocrati. Un particolare tipo di “clero” che sopravvive ai politici e alle maggioranze di un momento, dotato di obiettivi autonomi e fedeltà che risalgono spesso molto indietro nel tempo.

Le donne e gli uomini di quella giunta hanno inoltre sottovaluto le “trappole”. Un interessante saggio sul caso messinese, scritto da Berardino Palumbo e pubblicato nel 2017, sul finire dell’esperienza di Accorinti e in anni di tarda egemonia renziana, aveva per esempio mostrato come società di consulenza vicine al governo nazionale del tempo stessero infiltrandosi nelle giunte, attraverso tecnici che non di rado assumevano cariche politiche. Il saggio era molto esplicito nel notare come queste infiltrazioni potessero essere funzionali a un controllo di elementi come la gestione del debito. Ma nessuno, anche tra i quotidiani, ne tenne alcun conto.

Accorinti e il blocco sociale che lo ha espresso hanno insomma sottovalutato tutto quello che si insegna già al primo anno di Scienze Politiche. In primo luogo che l’istituzione è una “struttura strutturante”: qualcosa, cioè, che ti piega e non si fa piegare (almeno tanto facilmente). O anche che il “sapere è potere” e che in politica la tecnica è uno strumento più potente del cuore.

Tuttavia – prendendo lo spunto da un motivo ricorrente nei discorsi pubblici – di una cosa gli uomini e le donne di quella giunta non possono essere accusati: di essere stati fermi a guardare o a criticare una città che si avvicinava al precipizio. Sono stati travolti dal treno, è vero. Ma è cosa molto diversa dal dire, come fa qualcuno, che “fossero come tutti gli altri”. Certamente alcuni non erano ciò che si pensava che fossero. Ma quella giunta non era un blocco di potere omogeneo. Di questo, naturalmente, poco importerà in sede processuale. Ma sarebbe giusto che la memoria collettiva lo tenesse a mente.

E, soprattutto, sarebbe importante che gli esiti di quella esperienza fossero trattenuti bene in mente da chi animerà i movimenti urbani del futuro. La struttura, infatti, non è qualcosa che si possa trasformare dall’interno. Né è qualcosa che si faccia smantellare da improvvisatori. Ricordarlo sarà meglio per tutti e tutte.

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