Ogni tanto la vita politica dei luoghi viene scossa da eventi eccezionali che ribaltano le logiche ordinarie e, attraverso le reazioni che generano, mettono a nudo anche la mediocrità del sentire comune. 

È questo il caso della splendida lettera che la Comunità nigeriana di Messina ha inviato ieri alla cittadinanza e alle sue autorità. Un testo in cui si afferma a chiarissime lettere che mendicare è la risposta obbligata a un mercato del lavoro, gestito da italiani, che retribuisce la fatica con meno di un elemosina e pone il lavoratore africano dinanzi al dilemma tra mangiare e pagare l’affitto. Che la legislazione pone questi immigrati dinanzi all’obbligo di possedere una residenza, ma che questo requisito è impossibile da soddisfare dati i salari (che secondo varie ricerche e indagini di polizia, pubblicati anche sui principali quotidiani nazionali ammontano, al sud, a due o tre euro l’ora. “Gabbie salariali razziali”, potremmo dunque dire). Che essi sono, dunque, dei lavoratori costretti all’elemosina e che alla loro generazione sono state negate le opportunità date a quelli che li hanno preceduti di entrare nel mercato del lavoro e diventare nel tempo cittadini italiani naturalizzati (un effetto di quelle scelte legislative che precludendo gli ingressi legali in Italia, hanno generato artificialmente un esercito di questuanti. Ma anche una condizione comune a molti italiani. La ricerca sociale, del resto, è pressoché unanime su questo punto e non ci troviamo dunque dinanzi a invenzioni degli estensori del documento). Che, infine, questi “mendicanti per necessità” contribuiscono all’economia locale (pagando affitti, trasporti e servizi) e che vorrebbero farlo meglio ancora, accedendo a lavori e salari pagati dignitosamente.

Una lettera di sconvolgente bellezza e politicità – almeno per chi la sa leggere con la giusta laicità  – che afferma principi rilevantissimi. E che, per l’appunto, genera non di rado tra i lettori reazioni scomposte, intrise di quei sentimenti rancorosi e superficiali ispirati dalla nuova pedagogia del “buon senso”. Ossia da quella visione della realtà, così popolare nell’Italia di oggi, che celebra la fine della complessità e, al contempo, elegge l’“identità” a misura di interpretazione dei fatti del mondo. In tal modo i giudizi sui fenomeni, le persone e le cose non sono ricalcate sui fatti storici, ma a misura del mondo stesso della persona che enuncia un’opinione.

È questa, per lo meno, l’impressione obiettiva che genera la lettura dei commenti che accompagnano l’articolo in calce alla pagina Facebook di Lettera Emme, in cui appaiono preponderanti, oltre all’ignoranza più assoluta in materia di migrazioni, la mancanza di empatia e l’impossibilità di un’uscita da se stessi e della propria esperienza di vita come metodo per comprendere la realtà e le posizioni di chi occupa posizioni sociali non convenzionali.

Una incapacità di empatia da parte dei lettori italiani, inoltre, che si accompagna spesso alla rivendicazione di una “miseria” personale non troppo dissimile da quella degli immigrati. Una miseria, però, che non riesce a farsi politica e a manifestarsi con la richiesta di diritti e garanzie. 

In tal senso genera un sentimento amaro il lavoratore italiano che, opponendosi ai commenti simpatetici di un altro lettore nei confronti degli immigrati, dichiara: “io lavoro bestia… e sudo in cantiere che cazzo ne sai culo riuscito […] e sudo serio mi faccio i miei periodi di disoccupazione senza copertura… e non rompo i coglioni”.

Il passaggio è straordinario perché, oltre a enunciare la naturalezza di una vita lavorativa “senza copertura” nei periodi di disoccupazione, celebra anche la “compostezza”. Ossia la sostanziale indesiderabilità della protesta (“non rompo i coglioni”). Il lettore, in altri termini, enuncia una “verità” locale: bisogna accettare l’incertezza, persino lo sfruttamento, e farlo rimanendo zitti. Soffrendo in silenzio, da soli. Protestare è male, scriverne è ancora peggio… Come dire, il volto stesso della miseria contemporanea in un’età priva di partiti, ideologie della liberazione e di speranze.

Continuando questa carrellata, un altro commentatore, rivolgendosi agli autori della lettera, dice: “Provate a inserirvi nella comunità… come fanno da anni filippini e bengalesi… Ospitalità, accoglienza non significa elemosinare… io da ragazzino andavo in campagna a guadagnarmi qualcosina… non andavo al semaforo o al supermercato a chiedere le monete”. Un commento che fa sorridere, sia pure amaramente, perché da un lato denota la più totale ignoranza relativa alle fasi che presiedono ai processi di governo delle migrazioni, mettendo assieme i regimi liberali degli anni 1960-1990 e quelli attuali, improntanti essenzialmente alla criminalizzazione delle migrazioni africane. A quel lettore vorrei spiegare infatti che, come mostrato da una ricca letteratura, le migrazioni asiatiche (specie quelle filippine, ma non solo) venivano promosse dalla Chiesa, mettevano in connessione donne straniere e famiglie italiane. Erano migrazioni per lo più femminili, di lunga durata, che hanno permesso di creare reti interpersonali e fiduciarie, le quali nel tempo, complice la legislazione favorevole, hanno consentito l’ampiamento di quelle particolari presenze e la loro integrazione nella società italiana.

Le migrazioni africane sfuggono per lo più ai canali ufficiali di mediazione come la Chiesa e se sino a circa un decennio fa sono riuscite a produrre integrazione su base continentale (ossia tra paesi e sistemi economici europei) lo hanno fatto perché era consentita la mobilità degli individui tra stati, erano infinitamente meno criminalizzate di ora e si fondavano su forti reti di solidarietà interne alle comunità (parenti e amici che ospitano compaesani etc.). Le politiche migratorie contemporanee hanno scientemente reciso questi canali e prodotto quella atomizzazione che si manifesta nelle strade con quella intensità che dà tanto fastidio al lettore.

Dall’altro lato, allo stesso lettore bisognerà spiegare che un conto è essere poveri come lui stesso dichiara di essere stato in gioventù, ma certi di non potere essere allontanati dal terreno su cui si investe affettivamente ed economicamente. Un altro conto è quello di essere “deportabili”, ossia soggetti non solo alla povertà, ma anche a un insieme di obblighi giuridici che ti costringono ad attivarti per soddisfare tali requisiti e mai per vivere o goderti qualche istante (per l’appunto, ciò che intendevo quando parlavo di incapacità di avvertire empatia e incapacità di vedere il mondo vestendo i panni altrui).

Un altro commentatore, invece, osserva che “Parliamo di Messina, dove chi lavora è preso quasi per un coglione?”. Il lettore in questione enuncia invece un’etica lavorista che, però, è priva di oggetto e soggetto. Non soltanto perché gli autori della lettera dicono di volere lavorare a condizioni eque, ma anche e soprattutto perché il lavoro non andrebbe confuso con lo sfruttamento. Il lavoro, sarebbe a dirsi, è tale nella misura in cui esiste un rapporto tra sforzo individuale e salario. Altrimenti non è lavoro, ma sfruttamento. Oppure nuova schiavitù.

In questo senso, il testo della Comunità nigeriana risulta offensivo perché rifiuta tratti e convenzioni della società locale – lo sfruttamento, la rassegnazione, il silenzio, l’impoliticità – e avanza delle richieste politiche. Politicizza, cioè, il rapporto con la città. 

Quella lettera dice che loro – ossia gli ultimi, gli straccioni, i neri – vogliono avere parola in causa. Afferma, anzi, che i neri possono parlare in nome di se stessi e contro i discorsi che altri hanno messo in circolo a detrimento loro. Invitano la società civile a fare fronte comune contro un’ordinanza punitiva. E indicano anche dei responsabili (i datori di lavoro che hanno reso preferibile la strada al “lavoro”; la Giunta comunale che fa politiche miopi che riempiranno le strade di persone che non potranno pagarsi gli affitti etc.).

Svelo un segreto: ero presente quando questa lettera è stata composta in inglese, anche se sono rimasto in silenzio tutto il tempo. Una collega ricercatrice, posta dinanzi all’importanza della questione e immaginando il mio interesse, mi aveva infatti invitato. Una cosa mi ha colpito: l’intervento di un giovane uomo che diceva che l’ordinanza della Giunta De Luca non è un’ordinanza contro i neri, ma un atto rivolto contro tutti. Ossia contro gli immigrati che chiedono l’elemosina così come contro gli italiani poveri e quelli che vendono in strada. Dobbiamo mettere assieme tutti, ha aggiunto: gli africani e gli italiani.

Una capacità di lettura politica raffinata, che pochi tra noi sarebbero capaci di fare oggi, e che lascia rinfrancati malgrado tutto. Come dire, orgoglio nero da un lato, balbettii barbari dall’altro. A ognuno il suo.       

 

 

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Alessandro Grussu
Alessandro Grussu
26 Luglio 2019 16:21

Caro Pietro,nel poco spazio d’un commento,posso solo dire che hai espresso fin troppo lucidamente le conseguenze di decenni di un becero individualismo,frutto velenoso del neoliberismo,che in tempo di crisi ha finito per alimentare nelle classi subalterne occidentali il risentimento verso individui ancora più di loro penalizzati dai processi globali d’accumulazione del capitale (guerre comprese).

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[…] fa aggrediva lavavetri e mendicanti, un atteggiamento vergognoso che è stato a mio parere umanamente e politicamente annichilito dalla pregevole risposta data dalla comunità nigeriana di Messina. De Luca è lo stesso sindaco […]