Un tempo, quando i beni culturali venivano chiamati “patrimonio storico-artistico”, gli oggetti e i contesti cui si attribuiva valore “culturale” si stagliavano come stelle fisse in un firmamento privo di chiarore diffuso; essi venivano apprezzati per il loro essere emergenze, piuttosto che considerati parte di un più ampio universo di segni entro cui ogni elemento racchiudesse senso e valore.

A seguito di un mutamento di prospettive avvenuto nella seconda metà del XX secolo (ma già anticipato in campo storiografico dall’esperienza francese delle Annales), che ha comportato qui da noi il riconoscimento dei limiti presenti in tale concezione elitaria dei patrimoni, il bene culturale è stato individuato attraverso nuove coordinate: si è giunti cioè a riconoscere che esso fa parte di un contesto territoriale che lo esprime e non può essere né compreso né valorizzato appieno fuori da tale contesto.

Tale consapevolezza segna, seppure in modo discontinuo e contradittorio, la nostra modernità, in un momento storico in cui forme distorte di identità attraversano e sostanziano pulsioni nazionalistiche di ogni genere.

Il termine di “patrimoni” culturali, affermatosi da qualche anno e mutuato dal corrispondente termine inglese (heritage, eredità) ha insito in sé non tanto il significato di “bene raro e di pregio” quanto quello di bene avente carattere identitario in grado di veicolare valori e memoria come appunto i patrimoni familiari trasmessi in eredità. I beni culturali, quali essi sembrano configurarsi nella nostra modernità, sono dunque più delle risorse d’identità che dei beni di particolare unicità, rarità e pregio. Io sarei tentato di assimilarli ai talenti evangelici, che non devono essere sotterrati (sacralizzati e, pertanto, sottratti alla fruizione) ma esibiti, negoziati, fatti fermentare o fruttificare.

È indubbio che tali “eredità” consistano tanto negli aspetti materiali quanto in quelli immateriali di una cultura, intendendo con i primi il mondo materiale e il complessivo “sistema degli oggetti” che di una determinata cultura costituiscono il corpo e l’orizzonte visibile, con i secondi gli universi mentali, il sistema dei segni, i parametri valoriali e la visione del mondo che tale cultura esprime.

Molti aspetti della configurazione storica e tradizionale del territorio sono stati di fatto rimossi nel corso del lungo processo che ha prodotto quello che oggi definiamo “modernità”, ossia l’insieme di città, tecnologie e linguaggi settoriali, organizzazione del tempo libero, culture specialistiche e corporative, società dell’immagine e dei consumi etc.

Il mondo tradizionale, quello antecedente la pasoliniana “scomparsa delle lucciole”, pur segnato dalla presenza di poteri forti (la Chiesa, lo Stato, i grandi gruppi economico-finanziari etc.) e di ideologie marcate, era in larga misura un universo caratterizzato da un’omogeneità culturale di fondo che si presentava, a suo modo, tollerante e rispettosa delle differenze. Il mondo europeo-occidentale era, fino a un cinquantennio fa, indubbiamente più cristiano, non solo nel senso di una maggiore consapevolezza delle proprie radici, bensì in quello più profondo di un’apertura dialettica alle diversità, nonché di una capacità di trasmettere – da una generazione all’altra – il propriopacchetto di valori”. L’omologazione del mondo globalizzato che oggi noi conosciamo è viceversa spia di un pianeta attraversato da babeliche confusioni delle lingue miste a diffidenza e paura dell’altro da noi e, più in profondità, rivela a livello diffuso una volontà di rimuovere i passati percepiti come arcaici, e quasi un cupio dissolvi, una fuga in avanti: in breve, la disinvolta mancanza di qualunque sentimento del tempo.

Tale “perdita di senso ereditario”, al contempo causa ed effetto di quella “perdita dell’esperienza” che secondo Giorgio Agamben (Infanzia e storia), contrassegna in modo assai significativo il nostro presente, rivela come l’attuale civiltà delle immagini frettolose tenda ad opacizzare gli sguardi ottundendone la capacità di visione. È questa la società liquida le cui declinazioni sono state magistralmente studiate da Zygmunt Bauman.

Tornando al tema dell’eredità, mi pare ovvio che essendosi smarrita la capacità di cumulare attraverso la trasmissione ereditaria dei tratti culturali la possibilità di declinare identità forti, marcate, le forme di identità che più frequentemente nel nostro tempo si determinano sono quelle “costruite”, in genere per finalità ideologiche o addirittura trivialmente pratiche. Il “prima gli Italiani” giornalmente sbandierato da un politico come Salvini che qualche decennio fa non avrebbe potuto estendere il proprio raggio d’influenza oltre quello di un Comitato di Quartiere, non costituisce altro che una furbesca strategia di distrazione di massa volta a creare una rappresentazione della realtà diversa e mistificata rispetto alla sua effettuale natura. Una realtà nella quale chi viene da fuori toglie il lavoro a quelli che stanno (asserragliati) dentro, delinque abitualmente (ennesima declinazione di un lombrosianesimo che periodicamente ritorna nell’immaginario italiano), è portatore di oscure e devastanti malattie (con buona pace delle stragi etniche perpetrate – anche a livello virale – dall’Occidente presso i cosiddetti popoli primitivi).

Mi pare allora che l’esigenza, sacrosanta, di poter disporre di forme plausibili di identità non possa essere perseguita e soddisfatta se non attraverso un nuovo approccio ai meccanismi della trasmissione ereditaria, sottratti alla logica chiusa della cultura autoreferenziale (una sorta di familismo amorale occidentale, quello che in antropologia si chiama etnocentrismo), ma debba costruirsi attorno alla ricerca di nuove percezioni, più ampie ed allargate, del concetto di eredità. Un grande etnologo italiano, Ernesto de Martino, ha scritto una volta che questo nostro pianeta è oggi divenuto troppo stretto per potere tollerare semplici coesistenze; ciò vuol dire che se giungiamo a riconoscere l’opportunità di non fondare la coesistenza umana su un rapporto di diffidenza e di ostilità repressa ma riteniamo più utile e più giusto per la nostra specie approfondire sempre più il grado di conoscenza reciproca, unico strumento per il raggiungimento di una sempre maggiore consapevolezza sulle radici comuni che contrassegnano la nostra comune umanità, la via da percorrere rimane quella di promuovere sempre maggiori e non banali occasioni di incontro, conoscenza e scambio tra gli esseri umani. In tale strategia, una politica non miope né autarchicamente asfittica sulle eredità culturali potrà senza dubbio sortire esiti di grande rilevanza etica e civile.

Il campo più efficace su cui misurare la possibilità di sperimentare nuove forme di “eredità” è probabilmente quello offerto dal viaggio.

Ogni viaggio, sia esso frutto di un’esigenza migratoria (oggi dolorosamente presente nelle nostre giornate storiche) ovvero riconducibile ad un’esigenza conoscitiva (dal turista, al geografo, all’antropologo, al flaneur), comporta in egual misura tanto una – sia pur parziale e provvisoria – messa in discussione della propria cultura, messa per così dire in crisi dall’incontro con sistemi culturali diversi (e spesso oltremodo diversi) dal proprio, quanto il bisogno di ri-negoziare secondo forme nuove e nuovi equilibri, la propria identità, che nel nuovo contesto territoriale ed esistenziale richiede perentoriamente di essere declinata in maniera differente che nel passato.

All’interno di tale – spesso drammatica – dialettica si giocano i meccanismi sottesi alla trasmissibilità dei saperi, dei tratti culturali, delle esperienze, della memoria dei luoghi; in una parola, la stessa “eredità culturale” si scompone e ricompone innumerevoli volte e finisce con lo smarrire il carattere monolitico e un po’ ottuso che la nostra tradizione culturale gli ha di solito assegnato.

Viaggiatori sono stati i migranti che hanno avuto la fortuna di approdare a Riace, luogo in cui un’Amministrazione consapevole e illuminata ha sperimentato ed attuato con successo un modello di integrazione tra popoli e culture divenuto esemplare anche fuori dei confini nazionali.

Oggi quella Amministrazione, nella persona del suo coraggioso Sindaco, viene punita per aver voluto attivare una strategia di rianimazione del territorio attraverso il mescolamento di persone, saperi, esperienze esistenziali, orizzonti culturali diversi ma – laddove ravvicinati da un incontro, da un reciproco sguardo d’intesa – destinati a trovare nuovi equilibri, nuovi orizzonti, nuove eredità. Sogni rinnovati.

Chi crede che il Pianeta sia patria comune a tutti gli uomini, non può che indignarsi e reagire civilmente a tale repressione.

Mantenendo, secondo quanto suggeriva Antonio Gramsci, il pessimismo dell’intelligenza non disgiunto dall’ottimismo della volontà.

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