MESSINA. Venticinquesima puntata (qui le altre puntate) della rubrica che spiegherà ai messinesi perché il rione, il quartiere o la via in cui vivono si chiama come si chiama: un tuffo nel passato della città alla ricerca di radici linguistiche, storiche, sociali e culturali, che racconta chi siamo oggi e perché.
PIAZZA FANNENNA. Nella toponomastica ufficiale piazza Martiri d’Ungheria, nel quartiere di Giostra alla fine della via Manzoni.
Guardando la foto sembra di stare in un bar della Versilia o della Riviera Romagnola, nell’epoca del boom economico dell’Italia dei Vitelloni. A giudicare dal numero dei tavoli, il bar era molto frequentato. Era il tempo in cui in Italia anche nei quartieri popolari era solito potersi permettere di fare colazione al bar. E alle nostre latitudini ogni giorno d’estate era d’obbligo iniziare la giornata dopo aver consumato, seduti ai tavoli tondi di metallo a tre gambe e le sedie a trama fitta di fili intrecciati di plastica colorata, la classica granita di caffè con panna con l’immancabile caratteristica briosche con il tuppo. Siano a Messina, nel quartiere popolare di Giostra, in Piazza Manzoni, oggi piazza Martiri d’Ungheria, questo secondo la toponomastica ufficiale, viceversa per quella popolare questo spazio urbano modellato da quinte d’architettura economica e popolare in cifra razionalista, era, ed è, piazza Fanennna.
A quel tempo, per chi abitava nel quartiere di Giostra la piazza era il terminal d’imbarco e sbarco da e per la città. La piazza era l’ultima fermata del servizio di trasporto pubblico. La linea n. 2 ivi faceva capolinea, partendo da Gazzi ed attraversando in lungo la città, collegando due estreme periferie. Al centro c’era Il Bar Ragno d’Oro, che polarizzava tutte le attività della piazza. Ma c’era anche l’alternativa del Bar Calapaj, posto all’ingresso della piazza a destra, dove, specie la sera, dopo il lavoro, si consumavano prevalentemente alcolici per fegati temprati. I due ritrovi erano sedi di due o più fazioni che si dividevano la frequentazione della piazza.
La piazza era un palcoscenico dalla geometria articolata con una vasta scenografia fatta di un’essenziale architettura razionalista tipica delle case economiche e popolari che il Genio Civile di Messina aveva cominciato a realizzare, in città, in attuazione alla legge Luzzatti, fin dal 1923. Una gradevole architettura semplice e pura, alla De Renzi, che rappresenta una categoria di pensiero coerente e concreta (il razionalismo nelle case popolari) con stilemi che riecheggiano, seppur larvatamente, alcune cifre di Alberto Libera e della Bauhaus.
Nella piazza vi era il mitico giornalaio “Zagarella”, unico contatto che il quartiere aveva con la cultura e con l’informazione grazie alla sua affollata esposizione di giornali, riviste e dei tanti fumetti che erano l’attrazione dei ragazzini e non solo: Tex Willer, Black il Macigno, Capitan Miki, Diabolik, erano i più gettonati. A monte la piazza chiudeva la prospettiva in salita dalla via Manzoni, con una stecca di botteghe a servizio del quartiere e della piazza: il macellaio, il salumiere, il ciabattino, etc. Di fronte al Bar Ragno al piano terra dell’isolato 8, vi erano due botteghe che si affacciavano sulla piazza: un pescivendolo ed un fruttivendolo. Entrambi allestivano i loro banchi sulla sede stradale per meglio attirare i flussi in transito fungendo da secondo baricentro.
La piazza era un universo perfettamente autarchico, sia nei servizi che nella vita di relazione. Un luogo pregno di funzionalità urbana. Un mondo dove si poteva stare mesi senza sentire la necessità di allontanarsi. Un piccolo miracolo dell’urbanistica razionalista italiana. Ma a cosa si deve questo singolare toponimo? Al fruttivendolo sopracitato e alla sua maglia di lana.
Il suo nome era Nino Visalli, un personaggio esuberante che caratterizzava la piazza con la sua eccentricità nell’esporre la merce e per il suo istrionismo durante la vendita. Nino Visalli era detto Nino Fannenna. La ’nciuria era un lascito famigliare. La sua famiglia era la famiglia Fannenna. Si racconta che il primo ad essere così appellato fu il nonno suo omonimo, il quale nelle mattine d’inverno quando, alle gelide luci dell’alba, soleva allestire il banco sulla strada con la merce acquistata al mercato ortofrutticolo nelle prime ore del mattino, intirizzito protestava pubblicamente all’indirizzo della figlia contestandogli la cattiva qualità della maglia di lana che indossava e che in quel freddo frangente si rilevava inadeguata. Come quel Luca Cupiello di Eduardo che rimprovera la moglie per l’incauto acquisto di un paio di pedalini di falsa lana: ” E pedalini ca cumpraste tu, che dicesti: “sono di lana pura”, qua lana pura… Conce’, quella non è lana, t’hanno mbrugliata. È tutta na mistificazione. Tengo i piedi gelati. E poi, la lana pura quando si lava si restringe… Questi più si lavano più si allargano, si allungano … so’ addiventate ddoje barche, tutta la notte a correr a press e pedalin rint o’ liett. ‘O ccafè, Cunce!’”
A quel tempo e in quei luoghi le intimità famigliari si svolgevano all’aperto, e così altrettanto pubblicamente la figlia affacciata alla finestra della loro abitazione che dava sulla piazza gli confutava la sua tesi, precisando che le maglie che indossava, da lei acquistate, erano di buona qualità perchè di Flanella. Lo rassicurava gridando con la sua congenita voce nasale che deformando la dizione faceva echeggiare, nella piazza ancora dormiente, la seguente esternazione: “i magli su boni! sunnu i Fannenna! …i Fannenna!! “
Nino Visalli animava la piazza, la caratterizzava fortemente al punto da esserne, insieme al Bar Ragno, l’anima. Un’anima che si trasformò in eponimo. Così la rinolalia della donna trasformando la parola Flanella in Fanenna, durante le frequenti diatribe sulla qualità intrinseca delle maglie di lana, della famiglia Visalli, fece sì che chi abitava l’intimità di quel luogo lo intitolasse all’estroverso fruttaiolo anziché al più grande scrittore italiano dell’800.
A cura di Carmelo Celona
Complimenti al dott. Carmelo Celona per la precisione e l’eleganza dell’esposizione. Effettivamente mia nonna Angela Baluce in Visalli mi raccontò la genesi del nostro soprannome come esposto dall’architetto Celona…con una piccola variante: il dialogo, da cui si generò la ‘nciuria avvenne tra lei e il fratello Diego Baluce, che era leggermente balbuziente e che nel chiederle a gran voce..