Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Nicola Ialacqua sulla 91esima cerimonia di consegna agli Oscar.

 

«Io non ho studiato cinema, non ho mai seguito una lezione sulla regia, non so come si scrive una sceneggiatura, non so assolutamente comporre una colonna sonora e non ho mai recitato in vita mia. Ci tengo a premettere ciò per evitare di essere scambiato per un esperto del settore o un critico: non lo sono e non voglio esserlo. Sono solo un ragazzo affezionato alla settima arte, uno che guarda un po’ di tutto e che cerca di costruirsi un’opinione su ciò che lo circonda.  Nonostante ciò ho deciso comunque di scrivere questo articolo perché avevo bisogno di dire qualcosa su questa vicenda: la 91° edizione degli Oscar. Tutto ciò che leggerete da qui in poi è frutto di riflessioni personali, non sono nessuno e per questo non pretendo di avere ragione».

«La mia rabbia per quest’ultima edizione non è stata generata solo dalla cerimonia in sé che, a parer mio, mi è parsa molto dimenticabile (a parte per la reazione di Spike Lee alla vittoria della statuetta e per l’esibizione di Lady Gaga e Bradley Cooper che ha provocato non pochi lacrimoni), ma sin dall’annuncio delle nomination a Gennaio: come ogni anno infatti sono stati esclusi film che, a mio parere, andavano per lo meno messi in risalto dall’Academy, film che avrebbero meritato una candidatura per molti aspetti. Come ogni anno poi sono rimasto deluso dall’assegnazione di alcuni premi e dalla conseguente estromissione di opere che avrebbero a mio avviso meritato quel riconoscimento. Per questo ho deciso di stilare una piccola lista di 4 film che dovevano essere valorizzati di più».

A Quiet Place

Questo film aveva tutte le carte in regola per essere un flop non solo per il poco budget (diciassette milioni di dollari) ma anche a causa della poca fama del regista, sceneggiatore e attore John Krasinski. Eppure, il film, a detta del sito Box Office Mojo, ha incassato in tutto il mondo 340,939,361 dollari. Com’è possibile? Ciò che ha reso questa pellicola così famosa è l’idea alla base della trama: il suono. Il film è infatti tutto basato sull’assenza-presenza di quest’ultimo: la Terra nel 2020 è stata invasa da una razza aliena incapace di vedere ma dall’udito ultrasensibile che uccide tutto ciò che emette suoni. L’umanità ha quindi dovuto adattarsi a ciò, compresa la famiglia protagonista Abbott i quali componenti comunicano solo attraverso la lingua dei segni americana. Ciò che provoca interesse nello spettatore è certamente la curiosità costruita con precisione dalla narrazione: a causa della poca comunicazione fra i protagonisti le informazioni che ci vengono date su questo mondo post-apocalittico sono poche e frammentate ed è proprio questa mancanza di spiegazioni che ci porta a proseguire nella visione per scoprire di più su queste creature, sui metodi di sopravvivenza adottati dalla famiglia, sul modo in cui questa sia riuscita a svolgere azioni quotidiane in una situazione al limite del possibile. Il suono, per essere lo scheletro dell’intera narrazione, deve essere perfettamente realizzato anche sotto l’aspetto tecnico ed è soprattutto in questo che il film eccelle: invito tutti a guardare questo piccolo video di “Insider” (https://www.youtube.com/watch?v=WnozP8OWeik) in cui viene spiegato nei minimi particolari in che modo sono stati realizzati i suoni delle creature e dell’ambiente. Ciò che colpisce di più è però il metodo “less is more” che hanno utilizzato per la costruzione di suoni semplici quali il rumore dei passi, lo scricchiolio delle assi di legno, lo scalpiccio sui ciottoli. Tutto ciò riesce a creare un’immedesimazione totale dello spettatore nell’ambientazione, un effetto invidiabile anche dalle grandi produzioni. Proprio per tutti questi motivi il film, oltre alla candidatura, si sarebbe meritato la vittoria della statuetta per Miglior montaggio sonoro. Come sapete però ciò non è avvenuto e questo film, purtroppo, è stato messo da parte e al suo posto ha vinto Bohemian Rhapsody. Questa piccola perla però non va dimenticata, non va lasciata sommersa dalla massa di prodotti mainstream di Hollywood, va preservata e diffusa.

 

Fahrenheit 11/9

Michael Moore, regista americano che non ha bisogno di presentazioni, quest’anno ha portato nelle sale cinematografiche del mondo una sua nuova scottante opera: Fahrenheit 11/9. In questo suo ultimo documentario Moore si interroga su come Trump abbia potuto vincere da solo le elezioni del 2016. Nel farlo parte innanzitutto da una dissezione della figura del 45° Presidente degli Stati Uniti per poi passare ad un’ironica e tagliente distruzione di quest’ultimo attraverso accostamenti e paragoni alla politica di Hitler. Il piatto forte è però l’analisi delle cause dell’ascesa di Trump, un’analisi oggettiva all’interno della quale non si cerca di deresponsabilizzare il Partito democratico dando la colpa alle “fake news” o all’elettorato “stupido” che si è fatto abbindolare ma di fargli invece prendere coscienza dei propri errori: il regista infatti punta il dito contro il partito, contro l’assurda e poco corretta candidatura di Hilary Clinton, contro l’esclusione di Bernie Sanders, contro le politiche neoliberiste del governo precedente, cerca di far riflettere i democratici su quanto si siano allontanati dai temi popolari, su quanto il popolo si sia sentito abbandonato e preso in giro in occasioni come la crisi dell’acqua di Flint. L’intento del film è ben lontano dal disfattismo tipico di una certa sinistra a noi molto familiare, anzi: accanto alle accuse troviamo delle proposte, delle soluzioni concrete portate avanti soprattutto dai “Millennials”, dai giovani americani che, dal basso, cercano di cambiare l’America e ai quali, per Moore, bisognerebbe ispirarsi per arrestare il dilagare delle destre. Detto questo, il lungometraggio non ha ricevuto neanche la nomination. Per l’Academy evidentemente questo film mostra delle ferite ancora troppo fresche, porta avanti delle tesi troppo scomode per essere mostrate al mondo intero.  L’Academy, ai fatti recenti difficili da metabolizzare di Fahrenheit 11/9, preferisce quelli passati e “dimenticati” di Vice, quelli risalenti ad un’America ormai seppellita (o meglio insabbiata).

 

L’uomo che uccise Don Quijote

Questo film andava candidato in una qualsiasi categoria anche solo per la disgraziata storia della sua produzione: nel 2000 il regista Terry Gilliam ottiene la conferma dai produttori per la realizzazione del film, poco dopo a causa di problemi dovuti al luogo delle riprese ed allo stato di salute del protagonista la produzione fu annullata e ripresa solo nel 2009, anno in cui viene riscritta la sceneggiatura ma che, per mancanza di fondi, non può essere realizzata. Le riprese avverranno solo nel 2017 con un budget di 17 milioni di dollari (poco più della metà di quelli che gli erano stati promessi nel 2000). Il film si ispira proprio a queste tristi vicende: il protagonista è Toby, un regista famoso e cinico che si trova in un set in Spagna in cui lavora su un soggetto su Don Chisciotte, soggetto che aveva già utilizzato molti anni prima in una sua opera giovanile realizzata in un paesino lì vicino. Col ritrovamento del dvd di quel suo lavoro scopre di aver cambiato le aspettative di quel piccolo villaggio e cercherà, attraverso questa consapevolezza, di riscattarsi e di ritrovare quella parte idealista di sé ormai eclissata. Il film, per quanto possa sembrare confusionario all’inizio, riesce piano piano a mostrare tutta la sua forza contenutistica attraverso una regia surreale, attraverso visioni che ci mostrano lo sfogo di un’artista che ricerca sé stesso mentre si trova incastrato in un mondo in cui la qualità ed il contenuto di un prodotto vengono sottomessi al denaro, dove i produttori investono ormai solo in opere create con l’unico scopo di  fatturare e che snobbano tutto ciò che non può essere consumato dalla massa, tutto ciò che non può massimizzare i profitti, tutto ciò che non può fare “il grande botto”: durante la visione troveremo infatti migliaia di denunce al mondo di Hollywood e alle sue logiche, ai magnati e ai potenti che sfruttano la propria ricchezza per piegare chiunque al fine di raggiungere i propri scopi. Sarà per tutto questo che l’Academy ha deciso di snobbare completamente Gilliam, seppellendo così 20 anni di fatiche?

 

Dogman

Qui non ci sono scuse: l’esclusione di Dogman dalla rosa dei candidati nella categoria Miglior film straniero è una porcata. Sicuramente il film in questione non avrebbe mai potuto rubare la statuetta a Roma per migliaia di motivi diversi ma, allo stesso tempo, non meritava una totale esclusione dalla competizione. Per chi non l’avesse visto, il film è ispirato al “delitto del Canaro”, un episodio di cronaca nera avvenuto nel 1988 a Roma il cui protagonista è il cosiddetto Canaro della Magliana, un uomo che gestiva un’attività di toelettatura per cani in via della Magliana e che uccise crudelmente il criminale e pugile Giancarlo Ricci. La storia nel film prende però una piega diversa dalla realtà e gli aspetti più pulp della vicenda vengono modificati senza con ciò ridurre l’impatto emotivo: il film infatti, pur mostrando scene di violenza esplicite, non scade mai nel “sangue gratuito”, riesce a distaccarsi dal retaggio lasciato dal Gomorra (serie) e dal Suburra (film) di Sollima  ed a raccontare una storia senza implicazioni politiche, resta attaccato alla realtà mostrando passo dopo passo il deterioramento di un uomo, la trasformazione di un individuo che, inizialmente passivo ed abituato ad incassare e sottomettersi, diviene infine artefice della propria sorte. Il modo in cui il rancore e la vendetta prendono possesso del protagonista viene magistralmente interpretato da Marcello Fonte, la punta di diamante della pellicola, uno sconosciuto attore calabrese divenuto la rivelazione dell’anno per la sua semplicità espressiva capace di mostrare in modo chiaro e diretto la debolezza sia fisica che caratteriale del proprio personaggio, capace di far sentire allo spettatore ogni colpo, capace di far immedesimare quest’ultimo in Marcello (il Canaro) a tal punto da farci patteggiare per lui, da farci giustificare il suo estremo atto. Il film e l’attore per fortuna sono stati premiati in tutti i festival possibili (EFA, Cannes, Nastro d’argento) e a breve lo saranno al David di Donatello. Dispiace che, dopo esser stato selezionato, non sia riuscito ad entrare nella short-list dei dieci film preselezionati agli Oscar: un’occasione sprecata per mostrare al mondo un’opera d’arte che non ha nulla da invidiare alle grandi produzioni americane, anzi.

 

«Come alcuni dei film sopracitati dimostrano, la vincita di un Oscar non determina (e non lo farà mai) la riuscita o meno di un’opera, la sua qualità e la sua importanza nella settima arte. Ciò che però questa cerimonia può precludere è la visibilità e la diffusione di queste perché, non di rado, ciò che finisce su quel palco diventa famoso, viene distribuito ovunque. In casi come Dogman per fortuna ciò non accade e nonostante tutto questi diverranno pietre miliari della cinematografia, ma che ne sarà di pellicole quali “L’uomo che uccise Don Quijote”? Finiranno nel dimenticatoio? Verranno scordate e si confonderanno fra le miriadi di opere abbandonate?».

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