MESSINA. Riceviamo e pubblichiamo una riflessione del Direttore del dipartimento di Economia all’Università di Messina, Michele Limosani, che analizza le conseguenze della pandemia sulle tasche dei messinesi, dai 100mila cittadini che non dichiarano alcun reddito ai lavoratori dipendenti, dai commercianti alle piccole e medie imprese.

Di seguito il suo contributo:

«Chi sono i soggetti economici più esposti alla crisi del Corona Virus? Chi pagherà alla fine il conto? Per rispondere a tale quesito rivolgiamo lo sguardo alla tipologia dei redditi percepiti in città partendo subito da un primo dato. Nel 2018 (ultima informazione disponibile) il 43% della popolazione residente in città (circa 100.000 persone) non ha dichiarato alcun tipo di reddito. Se teniamo fuori da questo conto i giovani, ossia i soggetti di età compresa tra 0 e 19 anni, circa 40 mila persone, questo segmento di popolazione includerà, in prevalenza, moltissime donne che hanno rinunziato da tempo a cercare lavoro ed una cospicua fetta di soggetti che popolano il folto bosco del mercato nero, alcuni dei quali “sopravvivono” di espedienti. Difficile misurare l’impatto che il Coronavirus ha generato su questa fascia di popolazione, ma non escludo che gli effetti siano stati dirompenti; soprattutto per coloro che vivono di lavori – se così si possono definire – retribuiti ad ore e a giornate.

Secondo elemento. È noto che i soggetti che dichiarano redditi da lavoro dipendente e da pensione costituiscono il 90% circa del totale delle dichiarazioni fiscali. Ora, i pensionati e i pubblici dipendenti hanno i redditi garantiti dallo Stato. Anche per i dipendenti regolarmente assunti dalle imprese private, tuttavia, lo Stato è intervenuto attraverso l’erogazione della cassa integrazione (anche quella in deroga). C’è stato in Sicilia, a causa di una inefficiente burocrazia regionale, un forte ritardo nell’erogazione di tale contributo; ma ciò che conta è che anche la stragrande maggioranza di questi redditi è stata garantita dallo Stato. I percettori di redditi da immobili, inoltre, – specie quelli concessi in locazione alle attività commerciali – sembra si siano garantiti da soli. I commercianti hanno lamentato spesso la mancanza di sensibilità da parte dei proprietari degli immobili che, al di là delle oggettive difficoltà, hanno comunque preteso il pagamento del canone di locazione.

Terzo elemento. Nel caso dei redditi da lavoro autonomo la situazione è leggermente più articolata. In primo luogo coloro che dichiarano redditi da lavoro autonomo (artigiani, professionisti, agenti di commercio, etc…) sono poco più di 3.000. All’interno di tale categoria, inoltre, si trovano soggetti con fasce di reddito molto variegate; dal coloro che guadagnano 15.000 euro l’anno (piccoli artigiani) a riconosciuti professionisti con redditi superiori ai 100.000 euro. Una parte dei lavoratori autonomi (avvocati, notai, commercialisti), poi, lavora a “prestazione” e spesso può risultare difficile individuare quante prestazioni sono state interrotte in questo periodo. Il governo, comunque, è intervenuto in questo settore con un contributo destinato ai lavoratori autonomi di 600 euro. Si tratta di un modesto sussidio e tanti reclamano interventi più consistenti. E‘ pur vero, tuttavia, che in molte professioni, vedi quella degli avvocati per esempio, i problemi di natura economica vengono da lontano ed è ragionevole pensare che la crisi del corona virus li abbia soltanto fatti emergere nella loro cruda oggettività.

Dulcis in fundo la tipologia sicuramente più colpita dalla crisi: i redditi da impresa e soprattutto quelli della piccola impresa, individuale e/o familiare, con un scarso numero di dipendenti, rimasta ferma in questo periodo. Come è noto il settore delle piccole imprese presentava già prima della pandemia enormi criticità. Nel 2018 erano più di 8.000 le imprese inattive e circa 5.000 le ditte individuali che, registrando perdite di esercizio nell’anno corrente, presentavano un imponibile pari a zero. Non è dato sapere quante di queste aziende riprenderanno le attività e se la crisi ha distrutto irreversibilmente quel poco di capitale umano e finanziario che consentiva loro di sopravvivere. Per le piccole imprese rimanenti (altre 5.000) la sfida è quella della ripartenza.

Il Governo è intervenuto anche a sostegno dei redditi dei piccoli imprenditori con l’erogazione delle 600 euro; una somma irrisoria, tuttavia, che non è stata nemmeno sufficiente per coprire quei costi che non è stato possibile rinviare per decreto. Il governo nazionale si è inoltre preoccupato di far pervenire liquidità alle imprese attraverso le garanzie prestate al sistema bancario; ma sempre di un debito si tratta, anche se a costi minimi, un debito che peserà nella fase di ripartenza dove serviranno inevitabilmente risorse aggiuntive. In estrema sintesi, quindi, perdite significative, mancato guadagno, maggiore debito, fatturato azzerato e per molte imprese (specialmente quelle che operano nel settore del commercio e della ristorazione) un futuro incerto. Cosa chieder di più?

A pagare il conto più salato saranno quindi i “piccoli” imprenditori ed alcuni soggetti in “nero”. È auspicabile pertanto che nella prossima manovra di bilancio sia previsto un congruo contributo a fondo perduto alle piccole imprese, calibrato sul fatturato registrato nel corso dell’anno precedente, a parziale ristoro delle perdite subite e per sostenere la fase di ripartenza; così come si renderà necessario estendere le misure finalizzate a sostenere i redditi degli indigenti e di quei numerosi soggetti che non godono di alcuna garanzia e protezione perché nascosti al fisco e alla società.

 

 

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