– I beg your pardon, but…
– Comu?
– Melo chibbòli chistu?
– Pòtticci un Camparipàddon, ah ah ahi ahi… non mi facìti rrìdiri chi m’nchiàna l’affannu.
– Ghiamaru u sìdici?
– Sorry, I really don’t understand.
Non capiva dove fosse e cosa stesse facendo lì in fila, attorniato da un folto gruppo di persone avanti negli anni, fragranza di legno marcio, cane umido e naftalina. Oltre a quel puzzo nauseabondo, percepì un caldo asfissiante e il ronzio di centinaia di mosche impazzite. Una larga macchia d’umidità chiazzava il soffitto della sala, illuminata a scatti da una coppia di neon anneriti. Sotto i neon, all’interno di una guardiola, si trovava un tizio dall’aria scocciata, la barba incolta e la biro dietro l’orecchio, alle prese con un pacchetto di sigarette e un mucchio di fogli ingialliti su una scrivania spoglia. Sul vetro della guardiola, accanto ad un pannello elimina code fisso sul 66, c’era una scritta che Mick non riuscì a decifrare meglio di così: AOU Uff. Ticket.
La fila si mosse, una vecchietta si immise con prepotenza a metà del serpentone, raggiungendo l’uomo davanti a Mick e urtando quest’ultimo col suo culone basso.
– Scusassi, iddu me figghiu è … mi pigghiai l’acqua p’à pinnula, a prissioni, i ginocchia…
La vecchietta lo osservò, magrissimo e ben vestito, puntò lo sguardo sui capelli lunghi e sul ricamo di rughe che lo facevano sembrare uno strano animale dal muso troppo grosso.
– Lei cavaffàri? – gli domandò.
– Sorry?
– Ha la ricetta rossa?
– Qui solo le bianche accettano. – aggiunse qualcuno da dietro.
– Nni canciunu una o jonnu, malanovammiànnu! – sospirò la vecchietta.
Mick Jagger non capiva una parola, ma notò che tutti stavano osservando il foglietto rosso che stringeva in mano da quando si era ritrovato in quella sala. La gente si fece più pressante, incuriosita dall’inusuale presenza di quel settantenne ben vestito, in fila assieme a loro all’Ufficio Ticket dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Messina.
– Ca ricetta russa av’annari o ddui.
– U ddui gghiusu è.
– Avi…
– Signori, io no capisco. – disse Mick affranto, in italiano.
– Lillo, speghiccillu tu chi hai i scoli àuti.
– È dddematerializzata? – intervenne Lillo con fare professionale, posando la ramazza accanto al distributore fuori servizio.
– Mi faccia vedere. – intervenne un altro signore, allungando la mano verso Jagger.
– Perché mi trovo qui? – domandò Mick, porgendo l’impegnativa.
– E si no sapi lei. – fu la risposta divertita di Lillo – U gghiamau il nummero vedde? Otto zerezzèru…
– Chi nnummiru ghiamaru? Ottu?
– Lei dopu ‘i mìa ‘rivau!
Giunsero due uomini vestiti di bianco, trascinavano una barella vuota, indirizzandola svogliatamente verso l’ascensore accanto alla guardiola. Sul lettino c’erano due piccoli bicchieri di carta e delle bustine di zucchero, un laccio emostatico e delle siringhe usate. La barella urtò una sedia, i bicchieri caddero per terra assieme alle siringhe, il barelliere bestemmiò, chiamò l’ascensore e si accese una sigaretta sotto il cartello Vietato Fumare, introdusse la barella per metà, bloccando le porte dell’ascensore, e continuò a fumare fino a quando non si sentì soddisfatto. Dopo avere buttato la cicca sul pavimento, entrò nell’ascensore, sghignazzando per una battuta del collega alle prese con un video sul cellulare.
– Ah, ma lei si deve fare controllare la prostata! – urlò qualcuno.
– Allora deve andare al Padiglione C, qui solo il ticchete c’è.
– Padiglione C? – ripeté Mick.
– Accanto al B… chi è Chiruggia ubbì?
– Quali Chiruggia, cu potta ddassutta!?
– Ubbì vicinu o Effi è. – intervenne ancora una volta la vecchietta che aveva abbandonato la fila per sedersi. – Maliditti ginocchia fracidi!… Vaddassi ccà!
Mick riprese il foglietto, chiuse gli occhi e contò fino a cinque. La vecchia era ancora lì, le ginocchia gonfie e blu in bella mostra, il caldo, le mosche, il frastuono, la sporcizia, doveva essere il girone del suo personalissimo inferno, ma certo… forse era morto e stava scontando i numerosi peccati accumulati nel corso della sua vita da pietra rotolante, non poteva esserci altra spiegazione.
– Principali u gghiamastu u sìdici?
– Ci dissi chi dopu ‘i mìa lei è, u visti jo! Vàia, non facemu i scattri!
– Non pò ghièssiri, avill’ottu…
Una voce impastata, lontana, riportò Mick nella sala, si trovava davanti al tizio dietro il vetro, toccava a lui.
– Signore…
– Nni nnacamu stamatina! – urlò l’uomo dietro Mick.
– Fozza ddocu! – fu un altro dei suoni gutturali che si persero nell’aria.
Mick passò il foglietto sotto il vetro, l’impiegato disse qualcosa, ma Jagger non lo sentì perché la sirena di un’ambulanza sovrastò con violenza le suonerie dei cellulari che avevano accompagnato ininterrottamente il suo incubo da quando si era ritrovato in quella sala. Analizzata l’impegnativa, l’uomo gli fece segno di avvicinarsi.
– Ma lei è Mick Jagger?
– Sì, sono io.
– U cantanti?
– Sorry?
– E chi finìu a discussioni?! – strepitò l’ultimo della fila.
L’impiegato si avvicinò al vetro e in perfetto inglese disse:
– C’è stato un errore Mr Jagger, aspettavamo il suo collega Richards, siamo mortificati.
– Keith? Ma lui non è ancora…
– Sì certo, questo lo sappiamo. – rispose compiaciuto, ticchettando con un dito lo schermo del pc.
– Per un attimo avevo pensato che…
– Ca ricetta russa occì avannari.
– Eddalla! Quali C… obbì ti dissi, accantu ottopedia.
– Ahi ahi ahi ‘sti ginocchia fracidi.
– Si concentri, non li stia a sentire, ci stanno solo provando… ascolti me, si concentri e mi dica: ha ancora simpatia per il diavolo?
Jagger distolse lo sguardo dagli occhi dell’uomo, attratto dalle due escrescenze rossicce apparse sulla sua fronte. Solo dopo notò le iridi ellittiche, gialle, da serpente. Un brivido lo scosse, si sentì strattonare dalla vecchietta tornata alla carica (“Vaddassi ccà… fraaacidi!”), poi rispose alla domanda che era rimasta sospesa come una delle tante mosche sul vetro:
– Non l’ho scritta io quella dannata canzone!
L’impiegato ghignò, mostrando canini aguzzi e lucidi, poi domandò:
– Allora Mr Jagger, si alza spesso di notte per andare in bagno?
Ci pensò con il pisello in mano, pisciando a getti discontinui per oltre un minuto. Era da solo adesso, nudo nel bagno del piano di sopra della sua lussuosa villa di Rio de Janeiro. Liberata la vescica, percepì una goccia di urina cadere sul dorso del suo piede sinistro. Tornò a letto confortato, ritrovando per cuscino le natiche della giovane ballerina di samba di cui non ricordava il nome.
Graziano Delorda – Marzo 2017
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